Nella più antica storia di Roma il VI secolo a.C. corrisponde al
regno della dinastìa etrusca dei Tarquini, periodo contraddistinto
dall'espansione della città e del suo dominio nel Lazio e dalla
realizzazione di importanti opere di edilizia pubblica. Tarquinio Prisco
(616-578 a.C.), quinto re di Roma e primo della dinastia etrusca, durante
una battaglia contro i Sabini votò un tempio a Giove Ottimo Massimo,
Giunone e Minerva in cambio della vittoria. Iniziò così la sistemazione
dell'area prescelta sul Monte Tarpeo facendo spianare la cima occidentale
del colle e facendovi costruire mura di contenimento. Il figlio Tarquinio
il Superbo riprese il progetto interrotto ma non riuscì a completarlo
perché scacciato da Roma in seguito a una rivolta popolare contro la
monarchia; il tempio venne così dedicato nel primo anno della repubblica
romana, il 13 settembre del 509 a.C., dal console Grazio Pulvillo. Gli
storici riferiscono che nell'area destinata al tempio già esistevano
piccoli edifici di culto. Furono pertanto interrogate dagli auguri le
rispettive divinità e quasi tutte acconsentirono allo spostamento del
sacello a loro dedicato: soltanto Tenninus e Juventas si rifiutarono e i
loro altari rimasero inglobati all'interno del nuovo tempio. Tra le varie
leggende legate alla costruzione del tempio si tramanda anche che durante
lo scavo delle fondazioni del nuovo edificio venne trovato un cranio umano
perfettamente conservato e da questo prodigio si capì che il colle,
chiamato da allora Capitolium, sarebbe diventato il centro del potere
imperiale di Roma. Il Tempio di Giove, Giunone e Minerva, collocato in
posizione dominante, si qualifica come il santuario delle divinità
protettrici della città e come tale doveva essere percepito sia dalla
vicine Etruria, sia dai popoli latini che avevano il proprio comune centro
religioso nel santuario di Iuppiter Latiaris sul Monte Cavo.
Del grande edificio voluto dai Tarquini rimane solo parte delle
imponenti strutture di fondazione in blocchi di cappellaccio.
Sistematicamente distrutto in età post-antica e utilizzato come cava di
materiali pregiati, il tempio stupisce ancora oggi per le sue
straordinarie dimensioni, anche se non se ne conservano purtroppo né
l'alzato né la ricca decorazione architettonica. Esso perì nel I secolo
a.C. in seguito a un violento incendio (83 a.C.) e sappiamo che fu
ricostruito sulle medesime fondazioni e con le stesse misure di quello
arcaico, utilizzando, secondo una fonte letteraria, le colonne in marmo
pentelico sottratte all'Olympieion di Atene. In mancanza di elementi
certi, risultano dunque preziose al fine della ricostruzione del primo
edificio sia la descrizione che ne fa Dionigi di Alicarnasso, sia i
commenti dell'architetto Vitruvio. Il tempio era costruito sopra un
altissimo podio ed era lungo circa 200 piedi (ossia 60 metri); la
larghezza era di poco inferiore alla lunghezza; era rivolto a Sud e
presentava tre file di colonne sulla fronte e una su ciascun lato. Aveva
tre celle parallele, separate da muri ma coperte da uno stesso tetto:
quella centrale dedicata a Giove, le laterali a Giunone e Minerva. Il
pavimento dell'edificio templare, assai più alto dell'attuale piano di
calpestio dell'area museale, si trovava all'incirca all'altezza
dell'attuale terrazza Caffarelli. Vitruvio aggiunge che le colonne erano
molto distanti tra loro: si trattava dunque di un tempio aerostilo. Questa
caratteristica, tipica dei templi tuscanici, non consentiva l'uso di
architravi di pietra, che sarebbero risultati troppo pesanti per una luce
tanto larga, ma solo di legno. In effetti gli intercolumni ricostruibili
sulla base delle strutture conservate misurano m 12,50 quello centrale e m
8 quelli laterali. Le dimensioni colossali del tempio capitolino (m 62 x
54) vengono apprezzate al meglio se confrontate con quelle dei templi
coevi: per esempio il Tempio dell'Area Sacra del Foro Boario, che misurava
m 10,60 x 10,60, quello di Portonaccio a Veio di m 18,50 x 18,50.
Da fonti storielle sappiamo che Tarquinio Prisco commissionò a
Vulca, ceroplasta Veio, la statua di culto in terracotta dedicata a Giove.
Il dio era rappresentato stante e con un fulmine nella mano destra;
durante determinate festività il suo volto veniva colorato di rosso.
Sempre ad artisti veienti fu commissionata la grande quadriga di
terracotta che doveva sovrastare il tetto. A proposito di quest'ultima si
narra che, durante la cottura, invece di perdere acqua, il manufatto
aumentò di volume tanto da spaccare il forno che la conteneva. Questo
prodigio fu interpretato dai sacerdoti come presagio della futura potenza
di Roma. Del tempio di età arcaici sono rimaste solo parti delle grandiose
strutture di fondazione: l'edificio è stato completamente ricostruito per
ben quattro volte in età romana; inoltre è noto dagli autori antichi che
gli elementi decorativi rovinati o da sostituire, in quanto considerati
sacri, venivano sepolti nelle paludi. Per queste ragioni il suo apparato
decorativo è ricostruibile solo sulla scorta del confronto con edifici
coevi. Possiamo immaginare che le colonne fossero in tufo intonacato, che
i muri delle celle e gli stipiti delle porte fossero decorati da lastre di
argilla dipinta. Il tetto poi doveva presentare sulla fronte un timpano
aperto, all'interno del quale si vedevano le testate del colwnen e dei
mutuli coperte da lastre di terracotta variamente decorate. Gli spioventi
del tetto, come la sottostante tettoia, dovevano presentare lastre
decorate con motivi floreali, palmette e fiori di loto alternati, sime e
cortine traforate, mentre nei lati lunghi i margini del tetto erano
decorate dalle antefisse forse a testa di Sileno e di Menade. La storia
del Tempio di Giove Capitolino è indissolubilmente intrecciata
all'espansione dell'imperialismo romano: presso il santuario capitolino si
svolgevano i riti che precedevano la partenza per le guerre di conquista,
come pure al Tempio di Giove approdavano le processioni trionfali
accordate dal Senato ai generali vittoriosi; esso divenne presto il
simbolo della città di Roma e come tale fu riprodotto in tutte le nuove
città fondate.
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