La fortunatissima stagione che per l'archeologia romana ebbe inizio
nel 1870 con la proclamazione di Roma Capitale d'Italia permise di
esplorare intere zone della città in maniera sistematica: certo si
trattava di scavi finalizzati alla costruzione di quartieri residenziali
oppure dei grandi edifici destinati ad accogliere le sedi dei Ministeri e
quindi necessariamente difficili ed affrettati. Ciononostante il
Quirinale, il Viminale e l' Esquilino, poli dell'espansione urbanistica di
fine secolo, restituirono una tale messe di materiali e di dati
topografici da costituire un intero Museo e da rappresentare materiale di
studio per intere generazioni di archeologi. Queste zone della città
rappresentavano infatti un fecondissimo terreno di ricerca perché, pur
essendo contigue al centro storico, mostravano, prima dei grandi
cambiamenti, un impianto edilizio estremamente rarefatto, caratterizzato
da ville con vasti giardini, vigne, orti: si andava quindi a esplorare un
terreno vergine, non sconvolto, come nel resto della città,
dall'ininterrotto succederei delle fasi abitative.
La supervisione dei lavori di scavo in queste zone fu affidata, per
competenza territoriale, alla Commisssione Archeologica Comunale: per
questo motivo le raccolte archeologiche capitoline si sono arricchite di
una straordinaria documentazione su un fenomeno urbanistico, al confine
tra la sfera pubblica e quella privata, situabile cronologicamente tra la
fine della repubblica e l'inizio dell'età imperiale. Si tratta degli
horti, cioè di complessi residenziali immersi nel verde, caratterizzati da
uno spettacolare apparato decorativo, nati ai margini del centro
monumentale come prestigiose dimore delle più illustri famiglie gentilizie
della tarda repubblica e poi passati a far parte delle proprietà
imperiali. Nella prima età imperiale gli horti costituivano una
ininterrotta corona di verde intorno al centro della città, non
diversamente dalle ville gentilizie della Roma moderna: proprio la
situazione che i lavori edilizi di fine Ottocento andavano gravemente
compromettendo. Le cronache dell'epoca riportano i numeri delle scoperte
avvenute durante i lavori: "705 anfore con importanti iscrizioni; 2360
lucerne di terracotta; 1824 iscrizioni scolpite nel marmo o nella pietra;
77 colonne di marmi rari; 313 pezzi di colonne; 157 capitelli di marmo;
118 basi; 590 opere d'arte di terracotta; 405 opere d'arte in bronzo; 711
tra gemme, pietre incise e cammei; 18 sarcofagi di marmo; 152
bassorilievi; 192 statue di marmo in buone condizioni; 21 figure di
animali in marmo; 266 busti e teste; 54 pitture in mosaico policromo; 47
oggetti d'oro e 39 d'argento; 36679 monete d'oro, d'argento e di bronzo; e
una quasi incredibile quantità di piccole reliquie di terracotta, osso,
vetro, smalto, piombo, avorio, bronzo, rame, stucco".
Per ospitare le sculture di maggior prestigio rinvenute in quegli
anni fu creata da Virgilio Vespignani, all'interno di un cortile scoperto
del Palazzo dei Conservatori, la cosiddetta Sala Ottagona, un padiglione
in legno dalle eleganti decorazioni, che fu inaugurato nel 1876, pochi
anni dopo l'inizio degli scavi. Al momento della sua apertura la sala
conteneva 133 statue ma, nei 27 anni della sua esistenza e fino alla
demolizione nel 1903, il padiglione di Vespignani accolse un numero sempre
maggiore di opere che venivano restaurate ed esposte man mano che i lavori
di esplorazione procedevano e sempre nuove sculture venivano alla luce.
Nel 1903 il Museo del Palazzo dei Conservatori conquistò nuovi spazi
adiacenti al giardino interno che aveva ospitato la Sala Ottagona e un
nuovo allestimento delle opere, suddivise secondo la loro provenienza, fu
curato da Rodolfo Lanciani, grande personaggio dell'archeologia romana
dell'epoca. Oggi molte di quelle opere tornano nelle stesse sale con un
nuovo allestimento che mette in evidenza la preziosità dei marmi e la
qualità artistica delle statue antiche rispettando, nello stesso tempo, le
scelte museografiche di quella originaria sistemazione.
|