[ urn:collectio:0001:doc:invisibilia:1992 ]

L’Antiquarium Comunale e le raccolte capitoline da “Roma Capitale” ai progetti per la loro sistemazione 1870/1992

(Alberto Danti)

Statua femminile Acefala: c. d. “Vittoria dei Simmaci” [P. 151]

Bigio antico, h. cm. 198. Acefala e mutila degli arti superiori. Ricomposta da numerosi frammenti e con diverse integrazioni. Roma, Palazzo dei Conservatori, Museo Nuovo, Sala VI, inv. Mus. Cap. 2845

La statua (n. 449), all’atto della scoperta durante gli sterri della Villa Casali eseguiti sul Celio nel 1885 per la costruzione dell’Ospedale Militare, era inglobata, a pezzi, in una struttura medievale, da identificare con quella rinvenuta di fronte alla chiesa di S. Tommaso in Formis.

Il Lanciani (in bibl.) allora la identificò come “Vittoria dei Simmaci” prendendo spunto dalla strenua difesa del culto della Vittoria (rappresentata soprattutto da un’ara posta nella Curia), portata avanti da Quinto Aurelio Simmaco nel Senato. I numerosi frammenti in cui essa fu rinvenuta, ben 151, sarebbero da spiegare, secondo questa interpretazione, con l’opera di devastazione compiuta dalla fazione cristiana alla fine del IV secolo d. C.; in quel tempo questa si scontrò con la dura opposizione pagana, capeggiata da Aurelio Simmaco la cui residenza sul Celio è indicata dalle fonti.

Questa interpretazione persistette a lungo nel tempo e difatti così la scultura viene ancora descritta quando nel 1929 fu esposta, quasi a suo simbolo, nel nuovo Antiquarium Comunale del Celio.

Solo in seguito il Colini (in bibl.) proprio a proposito della Casa dei Simmaci sul Celio, rifiutò il rapporto causa-effetto instaurato fra il ritrovamento della scultura all’interno del muro e l’evento storico menzionato dal Lanciani, ricordando la consuetudine medievale di riutilizzare come materiale di costruzione le sculture antiche, fatte appositamente a pezzi.

Queste considerazioni farebbero al momento escludere una eventuale connessione fra la scultura e la Casa dei Simmaci.

Dal punto di vista stilistico l’opera riprende modelli e schemi noti a partire dalla metà del V sec. a. C. (come la disposizione del chitone sul petto, analoga ad alcune rappresentazioni di Nike dello stesso periodo e soprattutto al tipo dell’Afrodite Napoli-Louvre, meglio conosciuta con nome di Venus genetrix). Diversamente la caratteristica del chitone stretto all’altezza dei fianchi da un doppio cordoncino annodato al centro richiama modelli ellenistici (cfr. L. Guerrini, in bibl.) o può essere considerata una più tarda invenzione romana (cfr. M. Bieber, Ancient Copies, Contributions to the History of the Greek and Roman Art, New York 1977, p. 47, fig. 157). Altri aspetti stilistici, quali l’impostazione frontale della figura, il movimento e la trasparenza dei panneggi e un accentuato colorismo delle superfici indicano che la scultura nel suo carattere eclettico può essere considerata come una manifestazione artistica del tardo ellenismo in ambito romano.

Di particolare interesse è anche il materiale in cui l’opera è stata realizzata: il bigio antico proveniente dall’Asia Minore.

Questo tipo di materiale permette di avvicinare la scultura ad analoghe opere in marmo scuro, come una statua del Museo di Antalya, una della Gliptoteca di Monaco e infine anche la statua della Fortuna di Palestrina. La mancanza di qualsiasi attributo e lo stato fortemente lacunoso rendono difficile una precisa identificazione iconografica della statua (da notare che sia la testa sia gli arti dovevano essere in marmo bianco come a voler sottolineare il colore nero dei vestiti); va tuttavia ricordato che il tipo con le opportune aggiunte venne utilizzato per la rappresentazione di Afrodite, della Fortuna, della Vittoria e infine anche per statue iconiche.

Un contributo per una chiarificazione dell’aspetto iconografico è senza dubbio offerto sia dall’analisi delle sculture appartenenti allo stesso nucleo di ritrovamento (provengono infatti dal medesimo muro medievale: la statua femminile in basalto c.d. Orante e una statuetta egizia in granito nero di Sparviero, mentre un frammento di statua colossale femminile in bigio antico è stata trovata nelle vicinanze), sia da quella del contesto topografico. Sulla sommità del Celio sono infatti attestati, oltre alle ricche dimore di nobili famiglie romane, soprattutto edifici templari collegati con i culti orientali. Si potrebbe proporre qui perciò una nuova ipotesi, alternativa a quella finora accettata: che la statua sia appartenuta alla decorazione scultorea di un edificio sacro, con ogni probabilità connesso con il culto delle divinità alessandrine.

BIBLIOGRAFIA

NSc, 1885, p. 422; BullCom., XIII, 1885, p. 177, n. 20. R. Lanciani, The 3 and excavations of ancient Rome, London 1897, p. 349. R. Lanciani, The destruction of ancient Rome, London 1906, p. 44; A. Muñoz, L’Antiquarium, in Capitolium, 1929, p. 20 ss.. Colini, 1929, p. 21. A. M. Colini, Storia e topografia del Celio nell’antichità, in MemPontAcc, s. III, VII, 1944, P. 282. L. Guerrini, Ricerche stilistiche intorno a un motivo iconografico, in AnnScAt XXXVII-XXXVIII, 1959-1960, pp. 417 ss. M. G. Lauro, La statua della Fortuna a Palestrina, in RendLinc, s. VIII, XXXIII, 1978, pp. 207-208.

Statua femminile acefala [P. 152]

(Alberto Danti)

Basalto, h. cm. 180. Acefala, mutila del braccio d. e dell’avanbraccio sin; scheggiature e fratture lungo le pieghe del panneggio. Ricomposta da più frammenti con integrazioni in gesso.. Roma, Palazzo dei Conservatori, Museo Nuovo, Sala V, inv. Mus. Cap. 1882

Questa statua (n. 450) fu trovata durante i lavori di sterro della Villa Casali sul Celio, smembrata in più frammenti, all’interno dello stesso muro medievale, in cui furono rinvenute altre opere fra cui la c. d. “Vittoria dei Simmaci”.

L’opera appartiene a una tipologia scultorea molto diffusa in ambiente romano e nota più genericamente con il termine di “Orante”, per la caratteristica di avere le mani sollevate in atto di preghiera, e molto usata soprattutto per statue iconiche femminili (cfr. M. Bieber, in bibl.).

Le notizie tramandate da Plinio il Vecchio, (N. H., XXXIV, 73, 78, 90) riguardo agli scultori Euphranor, Boedas e Sthennis che scolpirono figure di adoranti, sono state variamente interpretate. Il prototipo è stato infatti da alcuni attribuito a Euphranor, mentre risalirebbe secondo altri a un originale ionico in bronzo databile intorno al 380-370 a. C., oppure deriverebbe dalla statua colossale di Artemisia di Alicarnasso, con cui la statua in basanite sembra avere notevoli somiglianze stilistiche.

Si è ipotizzato (cfr. Helbig, 1966, n. 1773) che il pregiato materiale sia stato appositamente richiesto da parte della committente per sottolineare il suo alto rango sociale e la sua agiatezza, come dimostrano analoghe opere che rappresentano ad esempio l’imperatrice Livia. A questo proposito va evidenziato che, diversamente da altre analoghe statue iconiche, anche la testa doveva essere scolpita nel medesimo, come dimostra la mancanza dell’incasso all’altezza del collo per alloggiarvi la testa ritratto. Pertanto la scelta del materiale può aver avuto un ruolo fondamentale nell’identificazione della persona rappresentata; infatti il lucido basalto verde di origine egiziana veniva spesso usato per rappresentare personaggi (quali le sacerdotesse) o divinità legati ai culti egizi. Inoltre figure di Oranti erano quasi sempre collocate all’interno di edifici templari o nelle vicinanze di aree sacre e raramente sono state rinvenute in luoghi pubblici o case private.

A conferma dell’ipotesi che la statua da Villa Casali potesse essere appartenuta alla decorazione scultorea di un tempio si può proporre un confronto di particolare interesse. Si tratta del ritrovamento in situ di una statua femminile iconica, riconducibile al tipo dell’Orante, avvenuto all’interno dell’Iseo di Gortyna, datato fra il I e il II secolo d. C.. Questa statua è stata interpretata come la rappresentazione della donatrice del tempio, conosciuta anche attraverso documenti epigrafici (cfr. R. Salditt Trappmann, Tempel der ägyptischen Götter in Griechenland und an der West-Künste Kleinasiensn, Leiden 1970, p. 61, tav. 54).

BIBLIOGRAFIA

NSc, 1885, p. 423,. BullCom., XIII, 1885, p. 117, N. 19;. Mustilli, 1939, p. 95 ss., n. 18, tav. LII, 213;. Helbig, 1966, n. 1773;. R. Kabus-Jahn, Studien zu Frauenfiguren des 4 Jhs. v. Chr., Darmstadt 1963, p. 65 ss.;. M. Bieber, Ancient Copes Contributions to the History of the Greek and Roman Art, New York 1977, p. 198, fig. 811;. W. Fuchs, Storia della scultura greca (trad. ital.), Milano 1982, p. 185, fig. 229.

Materiali dal Pascolare di Castelgandolfo [Pagina 153]

(Antonella Magagnini)

Acquistato dai Musei Capitolini negli anni attorno al 1882, con la mediazione dell’antiquario Fausti, uno dei tanti personaggi che in questi anni di fervidi scavi e casuali scoperte controllavano il fiorente mercato di antichità, questo gruppo di oggetti, costituisce uno dei nuclei cronologicamente più antichi nell’ambito delle collezioni dell’Antiquarium Comunale.

La sua scoperta, che ben rispecchia i modi di trovamento usuali in quegli anni ed in quei luoghi, avvenne in maniera del tutto casuale durante i lavori di sistemazione di una vigna a Castelgandolfo sulla via Appia in una località adiacente la piccola chiesa di S. Sebastiano.

“Facendosi degli scassati per piantar viti” vennero messe in luce, alla profondità di circa m. 1.50, una trentina di tombe e, senza tener conto né della loro posizione sul suolo né tantomeno delle associazione tra gli oggetti, furono velocemente recuperati una settantina di vasi, sia di dimensione normali che in miniatura, ed una quindicina di piccoli oggetti di bronzo.

Trattandosi dunque di materiali sporadici per i quali è assai complesso, se non impossibile, ricostituire le originali associazioni e non potendo presentare il nucleo nella sua completezza si è preferito scegliere solo alcuni oggetti che sono sembrati esemplificativi delle fasi iniziali della cultura laziale alla quale questi manufatti appartengono, cronologicamente situabili tra la fine della tarda età del Bronzo (X sec. a. C) ed un momento iniziale dell’Età del Ferro (inizi del IX sec. a.C.).

Da alcune notizie sul ritrovamento sappiamo che queste sepolture, esclusivamente ad incenerazione, erano per lo più costituite da un pozzetto tagliato nel terreno vergine all’interno del quale era posto un grande dolio con dentro l’urna contenente le ceneri del defunto e gli oggetti di corredo; in altre invece l’urna ed il corredo erano disposti direttamente nel terreno. Il rituale era molto rigoroso: la distruzione del cadavere, conseguente la cremazione, veniva compensata fornendo il defunto del necessario per una nuova esistenza con oggetti d’uso ed ornamenti personali e, nel caso di quelli miniaturizzati, fabbricati nelle dimensioni adatte ad essere deposti con lui. (Anzi dei-Sestieri-De Santis 1985, p. 145)

Un elemento tipico delle tombe ad incenerazione di questo periodo è l’urna a campana: si tratta di un contenitore che riproduce fedelmente, in scala ridotta, un’abitazione; vi vediamo infatti evidenziati tutti gli elementi caratteristici della capanna reale: la pianta ovale, la struttura portante realizzata con pali incrociantisi alla sommità del tetto testudinato, la porta con palo trasversale di chiusura. Il nostro bellissimo esemplare (n. 1) in impasto bruno lisciato e lucidato a stecca presenta anche una ricca decorazione incisa con motivo a meandro sulla porta e sul tetto. Si può pensare che un oggetto così particolare ed un rituale complesso come quello dell’incenerazione fossero riservati solo ad alcuni membri della comunità di sesso maschile, titolari di una casa, a capo, cioè, di un gruppo familiare.

Un altro elemento tipico delle sepolture ad incinerazioni maschili è l’olla biansata poggiata su di un sostegno traforato (detto calefattoio) usato come fornello (n. 4 ). Tale oggetto, piuttosto che evocare la vita domestica, sembra particolarmente legato all’attività pastorizia essendo utilizzato per la lavorazione del latte e dei suoi derivati; come l’urna presenta una decorazione incisa a motivi geometrici e l’impasto nero lucidato a stecca.

Tra gli altri oggetti presentati è opportuno fermare l’attenzione anche sull’olla con decorazione a rete (n. 7) che troviamo attestata solo in ambiente laziale ed il vaso a barchetta (n. 8) riecheggiante nella sua forma ovale un mezzo di trasporto fluviale e lacustre.

Oltre a questo nucleo di materiali ci sono noti, sempre provenienti da Castelgandolfo, altri piccoli gruppi di sepolture coevi che ci suggeriscono l’esistenza, in questa zona, di villaggi con relative necropoli occupanti il versante sud-occidentale del Lago di Albano. I villaggi erano costituiti da gruppi di capanne, del tutto simile a quelle riprodotte dalle urne, abitati da qualche decina di membri; informazioni indirette sulle loro attività economiche le ricaviamo dai resti vegetali ed avanzi di ossa di animali trovati nelle tombe, che indiziano la probabile coltivazione di cereali e legumi, l’allevamento e, come abbiamo visto, la pastorizia. Le attività artigianali documentate sono la produzione di vasi di impasto e la lavorazione di oggetti di bronzo. (Formazione della città 1980, pp. 50-51).

Siamo dunque di fronte ad aggregati umani che avevano scelto come luogo per i loro stanziamenti un sito ricco di risorse naturali, adatto all’economia di sussistenza, con ampie zone boschive, corsi d’acqua, terreni coltivabili ed adatti al pascolo.

Studi recenti (Crescenzi-Tortorici 1981, pp. 18-19) hanno messo in luce l’opportunità di poter riconoscere nei villaggi e nelle necropoli del Lago di Albano la leggendaria Albalonga, fondata da Ascanio figlio di Enea e sede della dinastia dei re albani. Come è stato giustamente sottolineato sarebbe storicamente scorretto cercare di identificare Albalonga come “una realtà urbana definita” mentre sembra molto più plausibile riconoscerla nell’articolato sistema di villaggi e necropoli dei quali i materiali presentati costituiscono un significativo esempio.

BIBLIOGRAFIA

Gierow 964, pp. 290 ss.

La Necropoli dell’Esquilino [P. 154]

(Margherita Albertoni)

Nell’ambito delle collezioni dell’Antiquarium Comunale hanno sempre avuto particolare importanza i materiali dei corredi protostorici della necropoli esquilina. Essi infatti costituiscono un nucleo quantitativamente rilevante ed omogeneo sul rinvenimento del quale si sono conservate notizie che, se non risultano esaustive per la moderna critica archeologica, sono senz’altro sufficienti se comparate al periodo storico della loro scoperta, compreso tra gli anni 1874 e 1885. Il caso ha voluto infatti che tra i primi piani di espansione edilizia della Capitale d’Italia, fosse compreso il quartiere di piazza Vittorio; quest’ultimo, con i suoi isolati e le sue strade tutt’intorno alla piazza, insiste su di un’area che, tra il IX e il VII secolo a.C. era stata progressivamente occupata dalla più estesa necropoli romana.

L’area, oggi centrale rispetto alla moderna metropoli, nel periodo in esame, subito precedente alla formazione della città antica, era evidentemente esterna alla zona abitata, ma sicuramente battuta per essere attraversata dalle principali vie di comunicazione con i vicini centri dell’entroterra laziale quali Gabii, Praeneste, Tivoli. Essa sembra essere utilizzata successivamente e, quindi, probabilmente in sostituzione dell’area del Foro Romano, dove sono state individuate tombe di epoca immediatamente precedente.

Se la necropoli esquilina ha restituito numerosi corredi che documentano le fasi laziali IIB e III, il numero delle testimonianze diminuisce sensibilmente nel periodo successivo, quello del VII secolo, caratterizzato, nelle coeve necropoli, dalla estrema ricchezza di alcune tombe attribuite giustamente a “principi” della nuova aristocrazia che si andava costituendo un po’ dovunque, sia nelle città latine che in quelle etrusche.

Non è possibile però ammettere che questo rarefarsi di testimonianze sia indice della mancanza, in Roma, di un analogo sviluppo. La casualità degli scavi ottocenteschi, la minore sorveglianza dedicata agli sbancamenti nei primi anni di lavoro, possono essere altrettante valide ragioni: d’altra parte le tombe, forse a camera, già in antico potevano essere manomesse e riutilizzate dal momento che l’area ha conservato la sua destinazione cimiteriale fino all’età di Augusto. Il corredo che si presenta in questa sede è uno dei più ricchi pur non essendo completo. Della tomba infatti, rinvenuta nel 1881 in piazza M. Fanti, distante all’incirca m. 400 dal settore più antico e centrale della necropoli, fu esplorato solo il loculo, protetto da lastroni: è noto che il loculo costituisce soltanto una parte della tomba, quella nella quale viene sistemata la maggior parte del corredo vascolare; accanto ad esso riposa il defunto in un’ampia fossa nella quale si raccolgono gli elementi di maggior prestigio personale, purtroppo mancanti in questo caso. Inoltre una curiosa notizia pubblicata nel Bollettino Comunale dello stesso anno del rinvenimento, asserisce che undici vasi noti sono stati ricomposti da 297 frammenti, ma che ve ne erano altri 206 non utilizzati nel restauro. Che cosa ne è stato fatto di questi frammenti? Erano pertinenti ai vasi ricostruiti o ne avrebbero potuto costituire altrettanti?

Legittimi interrogativi, purtroppo destinati a rimanere senza risposta, che gettano cupe ombre su qualsiasi certezza, pur apparentemente acclarata, relativa a scavi eseguiti tanti anni orsono.

Comunque sia, alcuni dei vasi a noi giunti, tra i quali spicca la prestigiosa olla di impasto rosso con coppette rampanti (n.13) – un analogo esemplare si trovava nella tomba sottostante l’heroon di Enea a Lavinium (Sommella 1971, pp. 47-74; cfr. anche l’esemplare da Crustumerium: Archeologia a Roma 1990, p. 70, n. 31: E. Di Gennaro) -, mostrano una fattura particolarmente elegante ed elaborati motivi ad incisione. Mi riferisco per esempio all’askòs a ciambella verticale (n. 17), tipo ora ampiamente attestato nelle tombe orientalizzanti dell’Acqua Acetosa Laurentina (Archeologia a Roma 1990, p. 53. fig. 25: A. Bedini), ed alla pisside d’impasto (n. 16) che, con le tre particolari zampe ad alette, si distingue dai più comuni esemplari a piede strombato centrale; molto caratteristico risulta anche il vaso multiplo a tre coppe su altrettanti steli (n. 18).

Il corredo, considerata la presenza degli aryballoi d’importazione e dei buccheri dovrebbe essere databile nei primi decenni dopo la metà del VII secolo a.C. Pur nella relativa esiguità di corredi riferibili al VII secolo, la necropoli esquilina ha restituito per questo periodo un cospicuo numero di vasi di importazione greca per la maggior parte dei quali mancano purtroppo riferimenti precisi. Tali testimonianze sembrano avvalorare la ipotizzata esistenza di numerose (?) tombe principesche sull’Esquilino, delle quali si è conservata solo parte del corredo.

Quasi tutti sporadici sono pertanto gli esemplari protocorinzi presenti in questa mostra, riferibili ad un ampio arco cronologico che spazia dai primi decenni del VII secolo: tre kotylai decorate a fasce e con motivo a scacchiera (nn. 25-27); l’aryballos con cani del protocorinzio medio (n. 28) alla seconda metà dello stesso secolo: kylikes con orlo distinto del protocorizio recente, (nn. 29-30); olpe transizionale (n. 31).

Essi documentano in maniera tangibile l’apertura del mercato romano verso l’ambiente greco, in particolare corinzio, apertura già evidenziata per il secolo precedente dai frammenti di ceramica euboica rinvenuti a Sant’Omobono e che si manterrà nel secolo successivo con una forte impronta attica.

BIBLIOGRAFIA

BullCom, IX, 1881, p. 250; Gjerstad 1956, p. 261 s., fig. 232; Lazio primitivo 1976, p. 140, n. 43, tav. XXI D-E-F (A. Mura Sommella); per gli esemplari protocorinzi: Lazio primitivo 1976, p. 370, n. 125, tavv. XXI, A; XXII; XXIII, A (E. La Rocca).

Materiali dell’area sacra S. Omobono [P. 156]

(Antonella Magagnini)

In una presentazione sui materiali conservati presso l’Antiquarium Comunale non potevano certamente essere tralasciati i manufatti provenienti dall’area sacra di S. Omobono anche se molteplici e recentissime esposizioni (La grande Roma dei Tarquini – Roma, Palazzo delle Esposizioni. Giugno-Settembre 1990) hanno fato conoscere anche al grande pubblico la quantità e qualità dei reperti venuti in luce in oltre cinquant’anni di ricerche.

Una prima casuale scoperta risale al 1937 anno in cui, in occasione degli sbancamenti per la costruzione di edifici comunali, venne portata in luce una grande platea in blocchi di tufo su cui erano i resti di due templi gemelli di età repubblicana subito riconosciuti come quelli di Fortuna e Mater Matuta ricordati dalle fonti ed una cospicua quantità di preziosi materiali arcaici; successive esplorazioni sistematiche portarono alla scoperta nel 1959, insieme ad altri manufatti, del podio di un tempio arcaico la cui presenza chiarì la provenienza dei materiali arcaici venuti in luce vent’anni prima. Le ricerche sono continuate poi negli anni settanta interessando settori nei pressi del tempio arcaico con l’individuazione, tra l’altro, di un deposito votivo che ha restituito, benché esplorato solo in parte, oltre trecento oggetti tra integri e ricostruibili.

In questa occasione è sembrato quindi pleonastico riproporre le pregevoli terracotte architettoniche che decoravano i templi arcaici (da ultimo l’analisi in Sommella Mura 1990, pp. 115 ss.) o la sterminata quantità di materiali provenienti dai depositi votivi (da ultimo Virgili 1989, pp. 45 ss.), e si è invece fermata l’attenzione su pochi oggetti di età arcaica venuti in luce in diversi momenti e settori dello scavo accomunati dal fatto di provenire da ambienti diversi da quello romano: manufatti di importazione dunque per sottolineare il prestigioso ruolo che la zona del Foro Boario ha svolto fin da epoca antichissima.

Grazie infatti al guado sul Tevere, all’altezza dell’isola Tiberina, quest’area occupava una posizione privilegiata confluendo qui le vie interne e costiere che collegavano Roma con gli altri insediamenti nati e sviluppatisi in territorio laziale e non, tra la fine del IX sec. a.C. e gli inizi dell’VIII sec. a.C. Nel corso del VII sec. a.C., Roma diventò poi punto di riferimento obbligato negli scambi e nella circolazione.

Prime fra tutte, tra i materiali importanti, le coppe, presenti in quantità considerevoli, probabilmente con usi e finalità rituali funzionali cioè all’offerta di libagioni per il culto: provengono dalla Laconia (n. 32) come quella decorata con coppie di galli affrontati e due sfingi in un fregio che corre tutt’attorno al vaso ed una figura di Pegaso nel tondo interno databile attorno alla prima metà del VI sec. a.C. o dall’Attica come quella con testa di Gorgone (n. 33) rappresentata nel tondo interno situabile nell’ultimo ventennio del VI sec. a.C.

Decisamente anteriori, la loro datazione infatti si pone tra gli ultimi anni del VII ed i primi decenni del VI sec. a.C., i contenitori per oli ed essenze profumate: di pregevole fattura l’aryballos globulare da Corinto (n. 34) con una calligrafica decorazione dipinta in vernice rossa e nera rappresentante fiori e foglie resi con un sottile motivo a reticolato databile negli ultimi decenni del VII sec. a.C.

Nell’ambito di questa classe una collocazione a parte è occupata dai balsamari plastici, vasi di piccole dimensioni che venivano plasmati in forma di vegetali, animali o come figure umane, manufatti nettamente privilegiati come quantità nell’ambito delle importazioni greche ed in particolare greco-orientali nel bacino del Mediterraneo. Ampiamente attestati, per parlare della nostra penisola, in Sicilia, Magna Grecia ed Etruria (vd. Napoli 1976, pp. 93 ss.; pp.131 ss.; pp. 150 ss.) sono stati rinvenuti sia in corredi tombali che in ambiti votivi, come questo, proveniente dalla stipe votiva situata presso il lato posteriore del tempio, plasmato a forma di melograno (n. 35) e decorato da motivi animalistici e floreali forse prodotto a Corinto, come indica il tipo di argilla usato, anche se la forma ci riporta più verosimilmente all’ambiente greco-orientale e segnatamente rodiota.

Ugualmente da ambiente greco-orientale, proviene il contenitore a figura di Sirena (n. 36) con il corpo di uccello allungato e naturalistico, le zampe ripiegate che mostrano ancora tracce di colore rosso ed il volto di donna del quale rimane solo la parte terminale dei capelli resi plasticamente in trecce che ricadono sul petto e sul dorso su cui insiste anche una piccola presa; interessante il particolare della testa volta verso sinistra e non verso destra come attestato più comunemente. Il pezzo, venuto in luce frammentario, negli scavi del 1937-38, è stato poi, negli anni ’60, pesantemente restaurato con una tecnica, oggi completamente superata, che non permette di analizzare correttamente le parti originali.

Gli interrogativi su questo oggetto non sono pochi primo fra tutti la sua utilizzazione poiché la parte superiore dove si innestava la protome femminile, di solito con bocchello, sembra completamente chiusa mentre si evidenzia un piccolo foro sotto la coda che il restauro però non consente di esaminare; si tratta dunque di un oggetto in cui il carattere votivo prevale su quello di contenitore? Anche la sua provenienza non è del tutto chiara, se infatti il balsamario a sirena è diffuso in Sicilia e Magna Grecia (Orlandini 1976, p. 93; Lo Porto 1976, p. 131) non altrettanto si può dire per l’Etruria ed il Lazio dove si evidenzia l’estrema rarità delle sue attestazioni (Martelli Cristofani 1976, p. 150): rodie ma forse ancor più samie sembrano comunque le fabbriche produttrici di questo manufatto.

Preziosi contenitori per unguenti i due oggetti dalla forma cilindrica allungata (nn. 37-38) in alabastro che furono rinvenuti, frammentari, tra i materiali del deposito votivo. Questi contenitori, che presero il nome di “alabastra” proprio dal più raffinato dei materiali in cui erano prodotti, sono ampiamente diffusi in tutto il bacino del Mediterraneo tra la fine del VII sec. a.c. e l’età ellenistica e vanno considerati, con ogni probabilità di provenienza egiziana; è Naukratis, la città greco-egiziana situata sul Delta, dal quale, con ogni probabilità, questo tipo di oggetto era prodotto ovvero smistato sui mercati del Mediterraneo. Allo stesso emporion sembrano riferibili alcune figurine in calcare tenero tra le quali quella di USHEBTI (n. 39): piccole figure numerose, nelle tombe egiziane, a partire dal Nuovo Regno, ma scarsamente attestate in ambiente romano ed etrusco. Da un’area molto diversa, il lontano Baltico, le ambre, qui un esemplare purtroppo frammentario a protome taurina (n. 40); sembra infatti che tale esotica mercanzia giungesse alla stato naturale in area picena e li, dopo essere stata lavorata fosse immessa nei mercati dell’area etrusca e tirrenica (Virgili 1990, p. 130). Un posto a parte, tra gli oggetti importati presenti nell’area sacra, è occupato dalla placchetta in avorio (n. 46) raffigurante un leoncino accovacciato su di un lato e sull’altro lato, completamente piatto, un’iscrizione in alfabeto e lingua etrusca incisa lungo il contorno superiore della figura. Il manufatto oggetto di approfondite analisi sia dal punto iconografico che epigrafico (da ultimo La grande Roma dei Tarquini 1990, p. 21) è stato interpretato come una tessera hospitalis, cioè un documento atto a dimostrare i rapporti di amicizia tra due gruppi familiari o etnici. I nomi presenti nell’iscrizione apparterrebbero ad uno o forse due individui, i due contraenti il patto (Coarelli 1988, p. 151), indicati con la loro formula onomastica. Al di là delle possibili ipotesi che sono state avanzate, l’estrema importanza del pezzo risiede nel testimoniare la presenza di genti aristocratiche etrusche che portavano ex-voto in un santuario romano.

BIBLIOGRAFIA

La grande Roma dei Tarquini 1990, pp. 111 ss.

Decorazione architettonica in terracotta: le antefisse [P. 157]

(Margherita Albertoni)

Si è preferito in questa sede, in sostituzione della parte architettonica del santuario di S. Omobono, ben nota per essere stata esibita in recenti esposizioni e per essere tuttora oggetto di continui aggiornamenti critici, presentare alcune antefisse dell’Antiquarium, meno note ma che, coprendo un ampio arco cronologico, esemplificano l’alta qualità di certa produzione romana dall’età arcaica al primo ellenismo.

Alla fine del VI sec. a.C. viene assegnata la graziosa testa femminile (n. 47) tutta ancora pervasa dai caratteri dello stile ionizzante. Per essere stata trovata, purtroppo isolata, sull’Arce Capitolina è probabile che essa facesse parte di uno dei numerosi templi presenti sul colle, ma la mancanza di riferimenti precisi a contesti riconosciuti non permette alcuna attribuzione.

L’antefissa, elemento terminale di una serie continua di coppi ricurvi, è uno dei principali elementi di protezione in terracotta della struttura lignea del tetto. Recenti studi hanno posto l’attenzione sull’enorme sforzo richiesto dalla costruzione di un tempio ed in particolare dei suoi elementi fittili (La grande Roma dei Tarquini 1990, p. 138 ss., Rendeli). Per raggiungere lo scopo si rendeva necessaria infatti la disponibilità di una grande quantità di argilla, si calcola intorno agli 11 kilogrammi per tegola (un tetto di medie dimensioni poteva essere costituito da un migliaio di tegole). L’argilla, una volta cavata, veniva impastata con acqua, pressata nelle matrici, lasciata seccare ed infine sistemata in fornaci che, per le loro dimensioni, si pensa che non potessero contenere più di 140 tegole per volta. Ogni cottura durava poi ca. 14 ore ad alta temperatura e prevedeva 4 o 5 giorni di raffreddamento a forno spento.

Questo lungo processo doveva necessariamente impegnare personale altamente qualificato che sovrintendesse alle diverse fasi del lavoro, dalla ricerca delle cave di argilla, alla predisposizione dei forni e del combustibile necessario alla loro alimentazione; si è pensato all’esistenza di gruppi di artigiani, forse itineranti, che hanno dato l’avvio alla formazione di maestranze locali. In questo modo si possono agevolmente spiegare le forti somiglianze stilistiche riscontrabili in elementi architettonici rinvenuti in città diverse, anche lontane: per l’antefissa dell’Arce è stata rilevata per esempio una stretta parentela con analoghi esemplari ceretani degli ultimi decenni del VI secolo.

Forse di qualche anno più tarda è l’antefissa a maschera silenica (n. 48) rinvenuta sull’Esquilino, anch’essa fuori contesto. I sileni o satiri fanno la loro comparsa nella penisola italica insieme a tutto quel repertorio di figure e divinità mitiche della religione greca caratteristico della decorazione della ceramica di importazione. Nel decoro del tetto essi vengono utilizzati in modo consistente a cominciare dall’età tardo-arcaica; viene apprezzata la loro maschera, come nel caso di questa antefissa, ovvero essi vengono raffigurati, in coppia con le menadi, in rituali danze erotiche.

Le antefisse del tempio di Satrico, che ha restituito un’abbondante messe di materiali architettonici relativi ai primi decenni del V sec. a.C., costituiscono i più validi confronti per il Sileno dell’Esquilino. In esso risaltano ancora in modo evidente i caratteri selvaggi della figura semianimalesca dal volto coperto quasi completamente dalla folta barba, la fronte bassa ed aggrottata, le orecchie equine, gli occhi sporgenti, il naso largo e schiacciato.

La fortuna che la figura del satiro conserva nel tempo e le modifiche che essa subisce con la progressiva perdita del suo carattere mostruoso, possono essere apprezzate nella terza antefissa esposta (n. 49), anch’essa a maschera silenica, nella quale soltanto le orecchie e la corona di grappoli d’uva rimangono a ricordare l’origine animalesca e dionisiaca del personaggio. Rinvenuta ai piedi dell’Arce nel 1941, presso la chiesa dei SS. Luca e Martina insieme ad un’altra, più antica, essa costituisce uno degli esemplari più belli e più freschi di un tipo sufficientemente noto a Roma ed a Ostia (Sanzi Di Mino 1983, n. 59, tav. XVIII).

L’ottimo stato di conservazione della superficie, ma soprattutto l’essere stata tirata da una matrice non consumata dall’uso ripetuto, rendono quest’antefissa particolarmente “bella” e vicina al suo modello originario. Gli occhi grandi e profondi dalle palpebre ben disegnate sotto la larga fronte aggrottata, le guance sapientemente rese in modo plastico, i riccioli dettagliati della barba sono altrettanti indici della qualità artista del pezzo. Il colore poi, in parte conservato, vivacizza l’immagine conferendole ulteriore freschezza.

BIBLIOGRAFIA:

Per il n. 47: Gjerstad 1960, p. 204, fig. 129; La grande Roma dei Tarquini 1990, 3.6.3 p. 69 (Albertoni); per il n. 48: Gjerstad 1960, p. 139, fig. 92; La grande Roma dei Tarquini 1990, 10.1.4, tav. XXVIII (C. Martini); per il n. 49: Roma medio-repubblicana 1973, n. 123, p. 115 (A. Mura Sommella).

Torso di guerriero dall’Esquilino – Capro di bronzo dal Castro Pretorio [P. 158]

(Antonella Magagnini)

La lettura delle fonti storiche e l’analisi della documentazione archeologica inerente al VI sec. a.C. indicano con estrema chiarezza che nel periodo della monarchia etrusca Roma assunse l’aspetto e l’importanza di una grande metropoli. Le sue dimensioni erano nettamente superiori a quelle delle coeve città greche dell’Italia meridionale e della Sicilia con un assetto urbano estremamente articolato: oltre infatti ad essere fornita di un sistema di fortificazione, un’ampia zona, il Foro, era destinata alla vita pubblica con edifici e luoghi sacri ed in diverse zone della città sorgevano edifici pubblici, abitazioni private, templi e santuari.

Abbiamo anche visto a proposito del materiale proveniente dalla necropoli esquilina e dall’area di S. Omobono l’importanza assunta dal mercato romano come crocevia delle correnti commerciali e culturali che interessavano il bacino del Mediterraneo, evidenziata dalla massiccia quantità di materiali importati e dalla presenza, attestata dai manufatti e suffragata dalle fonti, di artigiani e personaggi eminenti del mondo greco ed etrusco.

Gli stretti contatti tra Roma ed il mondo greco da un lato e Roma ed il mondo etrusco dall’altro continuarono anche all’indomani della cacciata dei Tarquini con l’avvento del nuovo regime politico ed i due manufatti qui presentati, provenienti da scavi ottocenteschi e conservati nelle collezioni dell’Antiquarium Comunale, sono una convincente testimonianza di quanto questi dovettero essere diretti ed intensi.

Il primo documento è un elemento decorativo in terracotta, assai noto, che rappresenta un torso di guerriero ferito in atto di cadere. (n° 50) Il pezzo è reso con una particolare tecnica in cui ad un nucleo interno di argilla grossolana è sovrapposto uno strato di argilla estremamente depurata con cui sono modellati i particolari della figura sottolineati poi da una finissima decorazione pittorica: non possono sfuggire all’osservatore le morbide pieghe della leggera tunica che poggia sulla spalla sinistra, il realismo del profondo solco della ferita da cui fuoriescono fiotti di sangue resi in vivida vernice rossa ed ancora la calligrafica decorazione a scacchiera che rappresenta l’imbracciatura dello scudo. Il manufatto, oggetto di molteplici ed approfondite analisi (da ultimo La grande Roma dei Tarquini 1990, p. 137 e p. 144 con bibl. prec. ed inoltre Zevi 1987, pp. 129 ss.; Colonna 1988, pp. 314 ss; La Rocca 1990, pp. 315 ss.), presenta una qualità molto alta che lo distingue dalla coeva produzione etrusco-italica e lo fa concordemente attribuire, sulla base di confronti iconografici e stilisti, ad artisti greci operanti a Roma attorno al 500 a.C.; a Corinto riporta la particolare tecnica di modellazione ma con ogni probabilità è la Magna Grecia la patria del creatore del manufatto.

La presenza di artisti magnogreci a Roma trova una luminosa conferma nelle fonti: Plinio (Nat. Hist. XXV, 154), forse riportando una notizia varroniana, ci narra che due artisti, probabilmente reggini, Damophilos e Gorgasos erano stati chiamati a Roma, per decorare il tempio di Cerere, Libero e Libera votato e dedicato tra il 496 ed il 494 a.C. sul colle Aventino; in particolare egli descrive diffusamente la decorazione dei muri della cella arricchiti da pitture e dai rilievi in terracotta opera dei due plasticatori.

E’ stata avanzata la suggestiva ipotesi che il torso dell’Esquilino possa essere un prezioso lacerto di quella decorazione, ipotesi che riposa sulla possibilità che al momento della distruzione del tempio repubblicano, incendiatosi nel 31 a.C., le sue macerie fossero state usate come terra di riempimento dell’area dell’Esquilino desiderando bonificare quella zona fino ad allora adibita a necropoli e successivamente destinata, a partire da Mecenate, alle ricche dimore dei potenti.

D’altro canto dai resoconti di scavo sappiamo che il torso è stato ritrovato tra la terra di riempimento di una tomba a camera nella zona dell’isolato XXI, situato nei pressi dell’attuale Via Napoleone III, dal quale proviene anche un grande coppo di colmo in terracotta (anch’esso conservato presso l’Antiquarium Comunale); un tale binomio può quindi farci supporre l’esistenza in questa zona di un luogo di culto. Il torso potrebbe essere l’unico frammento giunto fino a noi di un impegnativo gruppo votivo, formato da due o più figure. (Cristofani 1990, p. 136).

Il capro in bronzo (n. 51), rinvenuto nel 1878 a Castro Pretorio, come riporta una brevissima nota sul Bullettino Comunale, è l’altro documento che ci testimonia i diretti ed intensi contatti tra Roma, il mondo greco, il mondo etrusco all’indomani della cacciata dei Tarquini e l’avvento del nuovo regime politico. L’animale stante sulle quattro zampe, è rappresentato con il corpo completamente liscio, sul dorso invece dalla testa alla coda corre una striscia di corto pelame resa con sottili linee incise; con la stessa tecnica sono anche resi il ciuffo di peli tra le corna e la barba triangolare sotto il mento. Le corna, ripiegate all’indietro sono caratterizzate da solchi a spirale e gli occhi particolarmente grandi sono chiusi da pupille a rilievo. Tra le corna, un piccolo foro è il residuo della tecnica di lavorazione con procedimento a cera perduta.

Motivazione di ordine iconografico e stilistico avevano fatto attribuire il piccolo bronzo all’attività di coloni greci insediatisi in Provenza oppure era stato inserito nella nota circolazione di prodotti magno-greci nel bacino del Mediterraneo (Richter 1930, p. 26, n. 2 – Jantzen 1937, p. 28, n. 33).

Una più attenta verifica dei numerosi ed efficaci confronti che si possono istituire per questo tipo di capro (Boucher 1989, n° 4 fig. 26) e soprattutto un esame della vasta area nella quale sono distribuiti, che comprende regioni a nord dell’Italia, quali Val D’Aosta ed Istria, Svizzera, Gallia Settentrionale, Olanda e la regione del Lago Balaton (Boucher 1973, pp. 81 ss.), ha invece spostato sull’ambiente etrusco la possibile provenienza di questo manufatto. Non può essere dimenticata infatti l’attività bronzistica esercitata su scala industriale da diversi centri etruschi, in particolare Vulci, i cui prodotti sono attestati in tutta la penisola italiana con una diffusione che comprende anche l’Italia settentrionale, la zona dei laghi alpini, la zona renana e la Gallia (Cristofani 1978, pp. 105-107).

Si tratta per lo più di vasellame d’uso domestico, brocche, patere, attingitoi decorati spesso con applicazioni plastiche, ma anche, come abbiamo visto, piccoli bronzi a tutto tondo inseriti probabilmente per completare il carico: questi prodotti, destinati anche ad usi cerimoniali, si inseriscono tra la fine del VI e la seconda metà del V sec. a.C. nei grandi circuiti commerciali ponendosi, con ogni probabilità, in concorrenza proprio con manufatti greci e magno-greci.

E’ all’Etruria che bisogna quindi guardare nell’indicare una provenienza per il piccolo capro in bronzo, ai rapporti con l’ambiente romano che si mostra costantemente interessato e recettivo.

BIBLIOGRAFIA

Torso – Stuart Jones 1926, p. 330 n. 145; Andrén 1940, p. 344 I: 2.. Capro – Stuart Jones 1926, p. 297 n. 37.

Terracotte architettoniche dalla Via Latina [P. 160]

(Antonella Magagnini)

Una lapidaria notizia pubblicata sul Bullettino Comunale del 1885, ci rende noto che la Commissione Archeologica Comunale “ha fatto acquisto per le collezioni artistiche… di un importante gruppo di 268 frammenti in terracotta appartenenti ad un antico fastigio di tempio, scoperti molti anni or sono fuori la porta S. Giovanni”.

Dal Milani, uno studioso-antiquario molto attivo in quegli anni, veniamo a sapere (Milani 1885, p. 93) che il materiale venne in luce attorno al 1876 durante frenetiche ricerche di antiche vestigia nella zona attorno alla Via Appia Antica. La scoperta di un numero così cospicuo di frammenti, notevoli per la loro raffinata plasticità e riconducibili ad un unico imponente complesso frontale, suscitarono l’interesse degli studiosi e antiquari dell’epoca fino ad allora monopolizzato, secondo un’usuale tradizione culturale, dai ricchi manufatti marmorei. Con la mediazione dello stesso Milani le terracotte furono vendute al Gamurrini e portate al Museo Archeologico di Firenze; dell’arrivo e permanenza delle casse contenenti i frammenti è stata trovata traccia, da parte di chi scrive e di C. Martini, in seno alla rilettura critica di tutta la documentazione di archivio relativa alla scoperta ed ai successivi spostamenti del materiale sia a Roma che a Firenze. Sfugge, almeno per il momento, il motivo per il quale i pezzi, arrivati a Firenze contemporaneamente alle terracotte di Luni, furono lasciati nelle casse e poi rivenduti, come abbiamo visto, nel 1885-86 alla Commissione Archeologica Comunale.

Uno dei problemi posto da questo nucleo di materiali è quello dell’esatta definizione del luogo di rinvenimento, problema connesso strettamente alla possibilità di riferirlo ad un monumento, o meglio, ad un edificio templare ben preciso.

Le uniche indicazioni utilizzabili in nostro possesso sono quelle che riporta l’Andrén (Andrén 1940, p. 360), citando il Milani, in base alle quali studi recenti (Quilici Gigli 1981, p. 561) localizzano il ritrovamento nella zona tra Tor Fiscale e Osteria del Tavolato, non lontano dal sito in cui venivano in luce due grossi frammenti di un fregio marmoreo iscritto pertinenti, con ogni probabilità, al tempio della Fortuna Muliebris.

La vicinanza tra i due ritrovamenti ha indotto a mettere in relazione le terrecotte architettoniche (Quilici Gigli 1981, pp. 562-563) con il tempio in questione, di cui è nota l’antica origine (fu infatti dedicato da Coriolano nel V sec. a. C.) intendendole come decorazione di una fase di rifacimento del tempio nell’ambito del II sec. a. C..

Sulla cronologia dei frammenti, molto numerosi ed in attesa di una ricomposizione al fine di una corretta lettura, si è concordi nel porli nel corso del II sec. a. C.: non oltre la prima metà per alcuni (Coarelli 1990, p. 655), verso la fine del secolo, forse anche agli inizi del successivo, per altri (La Rocca 1990, p. 429). Il momento storico in cui esse si inseriscono è dunque quello tardo repubblicano, periodo nel quale si assiste ad un profondo cambiamento di una parte della produzione artistica con una forte influenza artistica greca e l’acquisizione di modelli ellenistici.

Le terracotte dalla Via Latina che fanno parte, come abbiamo detto, della decorazione di un ricco frontone affollato di figure umane ed animali, ben rispecchiano la temperie culturale del momento: pienamente ispirata a modelli greci del IV sec. a. C. la testa maschile barbata (n. 54) e quella femminile con diadema (n. 53), riferibile invece a manufatti dell’arte severa il frammento di capigliatura a chiocciolette forse di Apollo, di uno stile vivacemente realistico la protome di cavallo (n. 58) ed il frammento di protome ferina. (Coarelli 1990, pp. 655-656).

BIBLIOGRAFIA

Andrén 1940, pp. 360 ss. (con bib. prec.)

Materiali votivi di età repubblicana [P. 161]

(Laura Ferrea)

Gli ex-voto di terracotta così frequentemente offerti in età repubblicana alle varie divinità alle quali erano attribuiti poteri salutari sono conservati in migliaia di esemplari tra i materiali dell’Antiquarium Comunale.

Si tratta di oggetti poveri, di scarso valore artistico, generalmente eseguiti in serie per mezzo di matrici anch’esse di terracotta, notevoli soprattutto come testimonianza di religiosità popolare, perpetuatasi in modi analoghi fino ai giorni nostri.

Con l’offerta di un dono votivo raffigurante la parte del corpo malata se ne chiedeva la guarigione o si ringraziava la divinità per il suo benefico intervento: sono presenti in gran numero gli ex-voto che riproducono piedi, mani (n. 59), gambe, braccia, uteri (n. 60), falli, visceri, occhi, orecchie. Oppure si portava simbolicamente il donatore alla sua presenza offrendo una testa votiva (n. 61) o una più economica mezza testa (n. 62), che venivano sostituite da statue, sempre fittili, in caso di donatori più abbienti.

La stessa funzione era assolta dalle statuette di offerenti velati, stanti o seduti, da soli o in coppia, a volte anche con un bambino in braccio (n. 63); piuttosto comuni sono anche le maschere, comprendenti la porzione di volto tra la fronte e il labbro superiore.

Le numerose raffigurazioni di animali (bovini, suini e volatili) possono essere interpretate come sacrifici simbolici.

Sono documentate da un gran numero di esemplari anche le statuette di tipo tanagrino (nn. 64-69), così diffuse in età ellenistica.

Le terrecotte votive nell’Antiquarium Comunale provengono per lo più dagli scavi ottocenteschi in diverse zone di Roma e soprattutto dall’Esquilino, dove furono ritrovati in vari punti nuclei più o meno consistenti di ex-voto fittili di età repubblicana.

Uno di questi rinvenimenti ha un rilievo particolare per la grandissima quantità dei materiali recuperati e per la possibilità di identificare con una certa sicurezza il tempio dove erano stati dedicati, quello di Minerva Medica; tanto che con il tempo, e fin da molto presto, a quasi tutti i votivi fittili dell’Antiquarium è stata attribuita questa provenienza e solo con un paziente lavoro di controllo dei dati di archivio è possibile ricostruire, e non per tutti, quella originaria.

Il tempio di Minerva Medica è ricordato dalle fonti nella V regione augustea (Lugli 1957, p. 20, nn. 3-4). Negli anni 1887, 1888 e 1894 durante i lavori di sterro per la costruzione dell’attuale via Carlo Botta (allora chiamata Via Curva) vennero alla luce centinaia di ex-voto di terracotta accumulati in quello che chiaramente doveva essere stato un deposito votivo, una fossa scavata nelle vicinanze del santuario ed adibita alla raccolta dei doni votivi sgomberati dal tempio per far posto a nuove offerte.

Del complesso sacro non fu scoperta alcuna traccia, a parte i resti di un muro di tufo in opera quadrata messi in luce accanto alle terrecotte e forse ad esso attribuibili.

L’iscrizione incisa su un frammento dell’orlo di una grande lucerna fittile (n. 70): Mi]nerva dono de[dit indicava il nome della divinità salutare titolare del tempio, Minerva, ricollegabile con buona probabilità con la Minerva Medica ricordata dalle fonti proprio sull’Esquilino.

Tra le tante teste votive e di statue in terracotta, una testa di statua eseguita a stampo con i capelli applicati a mano e ritoccati a stecca (n.71) è stata identificata come ex-voto per una malattia del cuoio capelluto, in base alla presenza sulla fronte di un settore triangolare a piccole incisioni, che indicherebbero la ricrescita di capelli caduti, e sulla suggestione di un’epigrafe da un santuario di Minerva a Travi presso Piacenza (CIL XI, I, n. 1305) in cui si ringrazia la divinità proprio per questo prodigio.

Particolarmente notevole è una maschera in bronzo (n. 72), che riprende la tipologia della maschera votiva utilizzando un materiale più nobile della terracotta ed una lavorazione più accurata; piuttosto interessante è anche un modellino fittile di edificio (n. 73) con tetto a doppio spiovente, di cui è schematicamente riprodotta la decorazione architettonica (per questa classe di materiali cfr. Staccioli 1968).

Le terrecotte del deposito votivo del tempio di Minerva Medica, in analogia con quelle di altri depositi di Roma e dell’area etrusco-laziale-campana con cui trovano puntuali confronti, sono databili ai secoli III e II a. C. (per un inquadramento generale di questi materiali v. Comella 1981); al III sec. a. C. riporta anche la paleografia dell’iscrizione dedicatoria a Minerva sul frammento di lucerna menzionato.

BIBLIOGRAFIA

CIL VI, n. 30980 (iscrizione sulla lucerna n. 70);. Colini 1929, p. 37 ss., tavv. XLXLIX;. Roma Medio Repubblicana 1973, pp. 147 ss.. Gatti Lo Guzzo 1978 (con bibl. prec.).

Lucerne [P. 162]

(Carla Martini)

La collezione di lucerne dell’Antiquarium Comunale consta di circa 5000 esemplari per lo più proveniente da scavi effettuati a Roma e solo in pochi casi da acquisti.

L’arco cronologico documentato da questi reperti va dal IV sec. a. C. al V sec. d. C.. I più antichi esemplari sono stati rinvenuti negli scavi della necropoli esquilina e testimoniano la presenza a Roma di prodotti provenienti dall’area orientale ed in particolare dalla Grecia. Nel IV-III sec. a. C. il loro numero appare piuttosto limitato (n. 74, tipo Broneer VII).

Lo sviluppo e la produzione delle lucerne in occidente risente delle relazioni commerciali con queste aree; infatti gli esemplari più antichi testimoniati a Roma presentano caratteristiche tipiche della produzione greca quali la vernice nera, il foro di immissione semiaperto ed il fatto di essere prodotti al tornio.

Una reale diffusione avvenne nel II sec. a. C. quando la produzione romana si sostituì ai prodotti di importazione greca e invase molte aree occidentali dominando il commercio con massicce esportazioni. Nonostante lo spostamento dei centri di produzione le caratteristiche fondamentali delle lucerne rimasero a lungo invariate rispetto ai prototipi greci mostrando solo in alcuni casi delle varianti locali quali la mancanza della vernice, il rialzamento delle pareti, la maggiore chiusura del foro di immissione ed il becco svasato ad incudine (nn. 75-81).

Nel II sec. a. C. inoltrato avviene un radicale cambiamento con la creazione di nuove forme non riconducibili ai tipi più antichi, si passa, infatti, da una produzione a tornio ad una a matrici (nn. 82-83) con l’uso di un tipo di vernice nera e brillante che è stata messa in relazione con la ceramica cosiddetta “campana” o “italica a vernice nera” prodotta nelle fabbriche italiche in questo periodo.

Nel I sec. a. C. si ha un’ulteriore diversificazione dei tipi che prosegue fino a tutta l’età augustea: alla vernice nera si sostituisce una vernice rossa, l’ansa a nastro si aggiunge ad una presetta laterale ed appaiono i primi marchi di fabbrica incisi sul fondo prima della cottura (n. 86); un’altra importantissima innovazione è la comparsa di scene figurate a rilievo sul disco (n. 85). Un tipo di lucerna la cui produzione inizia in questo periodo è quello ad ansa trasversale con teste di cigno ai lati del becco, la Vogelkopflampe, (n. 87) che perdurerà per tutto il II sec. d. C. con progressive schematizzazioni del motivo delle teste di cigno (nn. 88-93).

Nella prima età augustea intanto si vanno affermando nuovi tipi che si distaccano completamente dalle forme repubblicane e che perdureranno nella prima età imperiale: sono le cosiddette lucerne a volute. Queste presentano becchi di forma triangolare (nn. 94-95) o di forma ogivale (nn. 96-98) con fondo piatto, in genere prive di ansa, e con il disco spesso decorato con scene figurate di vario soggetto; di questa tipologia fanno parte anche lucerne a due o più becchi (n. 99).

In età tiberiana le volute si riducono a semivolute (n. 100); intorno al 40 d. C. inizia il tipo di lucerna con becco tondo che predominerà nel II sec. d. C. in concomitanza con la sparizione dei tipi a volute (nn. 102-103).

Una produzione a sé si può considerare quella delle lucerne “a canale”, dette anche Firmalampen, prodotte in officine dell’Italia settentrionale con una argilla rossa molto compatta e derivanti da prototipi bronzei; questa produzione inizia nell’ultimo quarto del I sec. d. C. con il tipo a canale chiuso (n. 105) e perdura nel II sec. d. C. con il tipo a canale aperto (n. 106), presentando prodotti di particolare pregio come la lucerna a forma di elmo gladiatorio (n. 107).

Nel II sec. d. C. si vanno affermando delle officine locali nell’area orientale, soprattutto a Corinto, che producono ed esportano prodotti molto raffinati in antitesi con i prodotti coevi italici e romani che vanno via via diventando sempre più grossolani (n. 108); tale fenomeno si sviluppa anche nell’Africa settentrionale da cui sembra provengano delle lucerne che riecheggiano i tipi a volute e che presentano sul disco scene di porto, maschere teatrali e nature morte (n. 109).

Alla fine del II sec. d. C. si afferma una produzione caratterizzata dalla forma cuoriforme del becco che predominerà fino alla fine del III sec. d. C. (n. 110).

Nel IV sec. d. C. la produzione è limitata a prodotti locali molto rozzi tra i quali il cosiddetto tipo “a palla” mentre in Africa settentrionale si producono lucerne in terra sigillata, ampiamente esportate a Roma, che ripropongono sul disco soggetti vegetali, generici e di carattere vetero e neo testamentario (nn. 111-114).

Un accenno a parte si può fare per le lucerne plastiche che riproducono busti umani, piedi, teste di animali o piccole navi (nn. 115-119).

Lastre campana [P. 165]

(Laura Ferrea)

L’Antiquarium Comunale annovera tra le sue collezioni una importante raccolta di lastre Campana che consiste in circa 3000 reperti dei quali un consistente nucleo proveniente da uno scarico ritrovato nel 1937 in via Gallia.

La maggior parte del materiale proviene da scavi effettuati nel territorio capitolino e solo un esiguo numero è stato acquisito tramite acquisti.

Le lastre Campana derivano la loro denominazione dal marchese Campana che, nella prima metà dell’ottocento, ne raccolse una ricca collezione della quale curò la pubblicazione nel 1842.

L’origine della produzione è da ricercare, secondo Von Rodhen e Winnefeld in officine di ambiente sud etrusco-ceretano la cui attività sarebbe fiorita verso la metà del I sec. a. C. con una produzione che, pur continuando la sua tradizione decorativa, si differenziò da essa attraverso caratteristiche particolari che esprimono la tendenza al prevalere di motivi figurativi su quelli esclusivamente decorativi.

Il Borbein ribadisce questa ipotesi affermando che il passaggio dalla preesistente produzione alla nuova risale alla metà del I sec. a. C. raggiungendo il suo apice nel periodo augusteo allorquando le lastre Campana esprimono un altissimo livello artistico dovuto all’incontro della collaudata esperienza dei figuli con le forme artistiche elleniche dalle quali derivano molti temi figurativi.

E’ in questo periodo che a Roma avviene una trasformazione edilizia che vede il rinnovarsi degli antichi edifici e la costruzione di nuovi secondo canoni che prevedono l’utilizzazione di materiali più nobili quale il marmo; fu probabilmente questo il motivo preminente che limitò il periodo di produzione, intesa come alta espressione artistica, delle lastre fittili al primo quarto del I sec. d. C.

La produzione e l’impiego delle lastre Campane continua, comunque, per altri due secoli presentando prodotti sempre più scadenti frutto del riutilizzo di matrici stanche e della creazione di nuove su modelli stereotipati presentando, inoltre, una progressiva diminuzione delle dimensioni causata dalla realizzazione di nuove matrici dalle preesistenti; tali prodotti, ormai frutto di una produzione su scala industriale divennero, col tempo, oggetto di acquisto da parte di una categoria di acquirenti che non si potevano permettere di decorare la propria casa con materiali più nobili.

Il più importante centro di produzione e di diffusione delle lastre Campana fu certamente Roma anche se non mancano testimonianze archeologiche che fanno presupporre la probabile esistenza di officine in tutta l’area dell’Italia centrale e la diffusione dei prodotti anche in aree dell’Italia settentrionale.

L’impiego di tali lastre fittili è, dapprima, testimoniato come elemento decorativo di edifici sacri in sostituzione delle terrecotte architettoniche di fasi precedenti (Tempio dei Sassi Caduti a Civitacastellana) poi come elemento decorativo, interno ed esterno, di edifici pubblici e privati, come ci viene esemplificato dal caso delle lastre ritrovate presso il tempio di Apollo Palatino che si devono probabilmente riferire ad un edificio secondario posto all’interno dell’area del santuario laddove il tempio venne costruito esclusivamente con materiale nobile.

Molto più cospicui risultano i ritrovamenti di lastre Campana in case e ville di Roma e dei suoi dintorni (villa di Voconio Pollione a Marino), in ninfei, in colombari (Pomponio Hylas), in tombe (Villa Wolkonsky) ed in navi da parata (navi di Nemi).

I rilievi, accostati l’uno all’altro, formavano dei fregi continui che potevano essere costituiti da raffigurazioni identiche o dall’avvicendarsi di scene diverse riconducibili ad uno stesso soggetto, quale per esempio un soggetto dionisiaco, od ancora dall’accostamento di soggetti diversi appartenenti però ad un unico ciclo narrativo come il mito di Eracle; non mancano esempi di lastre che è possibile ipotizzare fossero utilizzate come quadro singolo come la lastra con paesaggio nilotico (n. 379) che presenta dimensioni superiori alla media e una forma delle chiusure laterali che non permettono di accostarla ad altre lastre.

L’iconografia dei temi e dei motivi riprodotti sulle lastre Campana, come è stato già accennato, risente fortemente degli influssi dell’arte greca ed alessandrina; la dipendenza da modelli neo-attici che il Borbein avverte nel confronto con altre classi di materiale quali i rilievi marmorei, la decorazione della ceramica aretina, gli stucchi e la toreutica è, comunque, spesso filtrata dagli artigiani romani soprattutto per ciò che riguarda gli schemi decorativi.

La gamma dei soggetti raffigurati sulle lastre Campana è piuttosto ampia; essa varia da raffigurazioni di carattere paesistico-fantastico, che risentono dell’influsso dei temi cari all’arte alessandrina, come nella lastra con paesaggio nilotico di età augustea (n. 379) a riproduzioni di strutture architettoniche realistiche come nella lastra con edificio templare della metà del I sec. d. C. (n. 380) od in quella con prospetto di palestra (n. 381). I temi derivati dalla mitologia greca occupano un posto molto rilevante tra i soggetti delle raffigurazioni; la lastra con Eracle e Telefo allattato da una cerva del II sec. d. C. (n. 382) fa parte del ciclo narrativo relativo ad Eracle mentre la lastra raffigurante Dioniso, menade e satiro di età augusteo-claudia (n. 383) e quella con raffigurazione di Dioniso sul carro in un corteo bacchico di età flavia (n. 384) rientrano, ovviamente, tra i soggetti di carattere dionisiaco tra i quali si può inserire la raffigurazione della lastra con i quattro busti umani di età augustea (n. 385); personaggi di carattere mitologico sono anche Pelope ed Ippodamia raffigurati in una lastra di età flavia (n. 386) e Teseo ed Arianna su una lastra di età flavia (n. 387). La lastra con colloquio tra fanciulle di età augustea (n. 388) è un frammento di una più ampia raffigurazione che ritrae Penelope e la sua nutrice Euriclea e che fa parte di un ciclo narrativo relativo ad Ulisse.

La lastra con signifero e cavaliere di metà I sec. d. C. (n. 389) può essere considerata tra quelle raffiguranti scene di genere. La lastra di rivestimento raffigurante un’Aura velificans (n. 390) di età tiberiana, ripropone un tema caro alla celebrazione della politica augustea di pacificazione e la ritroviamo nel pannello cosiddetto della Tellus, sul lato orientale dell’Ara Pacis, come figura allegorica simboleggiante elementi marini. Altra figura allegorica è la Nike tauroctona della lastra di coronamento (n. 391) di età flavia.

Le due lastre di sima (nn. 392, 393), rispettivamente di età augustea ed augusteo-claudia, raffigurano una Bes tra due sfingi e l’altra due satiri che cavalcano pantere ai lati di un kantharos; sono queste due figurazioni ornamentali delle quali la prima ci mostra un motivo di carattere egittizzante che rientra in una serie di soggetti molto frequenti sugli stucchi di età augusteo-claudia e la seconda un tema molto diffuso che è testimoniato ancora su un frammento di fregio del Foro di Traiano e su stucchi del II sec. d. C. di un sepolcro sulla via Portuense.

Infine la serie di lastre Campana raffiguranti Satiri alla fontana, della fine del I sec. d. C., provenienti da un unico ambiente di destinazione termale che faceva parte della casa di Avidio Quieto sull’Esquilino, ripropone un soggetto già noto nel periodo augusteo ma che qui si presenta irrigidito ed ampliato orizzontalmente su lastre di misura notevolmente inferiore rispetto a quelle augustee (nn. 394-399).

BIBLIOGRAFIA

“Bull Com”, 1880, p. 300 n.12 (n. 382). R.W., p. 6 fig. 6 (n. 385); p. 77 (n. 393); p. 118 fig. 221 (n. 386); p. 102 fig. 189 (n. 387); p. 161 fig. 307; tav. XXI, 2 (n. 391); tav. XXVII (n. 379); tav. XXVIII, 2 (n. 388); tav. LV, 1 (n 389); tav. LXIX, 1 (n. 380); tav. LXXVII, 1 (n. 384); tav. LXXIII, 1 (n. 381).

Affresco con scena storica dall’Esquilino [P. 168]

(Antonella Magagnini)

Eccezionale documento restituito dagli sterri eseguiti alla fine dell’Ottocento per la costruzione del nuovo quartiere dell’Esquilino, il frammento di affresco con scena storica è senz’altro uno dei manufatti di maggior rilievo conservati presso l’Antiquarium Comunale (n. 52).

Le fasi della sua scoperta sono purtroppo, come per moltissimi altri reperti, tutt’altro che chiare: le notizie di Rodolfo Lanciani riportare sul Bullettino Comunale ma anche i rapporti sui Registri dei Trovamenti presentano delle contraddizioni e delle incongruenze che è oggi impossibile chiarire e dipanare. Sappiamo che nella zona attorno all’attuale Via Napoleone III, in quello stesso isolato XXI che ha restituito il superbo torso di guerriero (n. 50), vennero messe in luce negli anni tra il 1875 ed il 1876 piccole tombe ipogee o semi ipogee inerenti la necropoli repubblicana: tra queste di particolare rilievo un sepolcro in blocchi di peperino con le pareti interne intonacate e decorate dall’affresco con scena storica che venne distaccato e , cogliendone l’importanza, immediatamente esposto ai Musei Capitolini.

L’affresco doveva svilupparsi per circa 10 o 15 metri occupando presumibilmente almeno tre delle pareti della tomba che misurava all’incirca m. 3,50 x 5; la composizione rappresentante una narrazione storica si svolgeva su quattro registri.

Il I ed il IV registro sono estremamente frammentari: sul I si vedono piedi e polpacci di una o più figure umane, nel IV si scorge una scena di battaglia; più esaurienti il II ed il III registro nei quali le figure principali sono accompagnate da un’iscrizione.

Nel II registro sono tracciate delle mura merlate accanto alle quali sono due personaggi stanti rivolti l’uno verso l’altro; quello di sinistra con elmo, scudo e schinieri tende la mano destra verso l’altro di cui s’intravede solo la parte inferiore della toga ed il braccio con la mano destra che stringe una lunga lancia. Tra i due personaggi un nome a lettere nere (……)anio st(ai)f(ilio).

Nel III° registro compaiono nuovamente due personaggi in atteggiamento simile a quello del registro precedente: quello di sinistra con mantello sulle spalle tende la mano verso l’altro personaggio che avanza portando una lancia. All’estremità destra del frammento una serie di figure poste su diversi livelli del terreno assistono alla scena. I due personaggi principali sono designati con i loro nomi M.FAN (io) quello di sinistra e Q.FABIO quello di destra.

Vastissima è la bibliografia su questo pezzo (da ultimo Coarelli 1990, p. 172 ss; La Rocca 1990, p. 356) che riveste un’importanza fondamentale sia dal punto di vista iconografico che storico anche se l’estrema frammentarietà del pezzo e le incomplete notizie sul suo ritrovamento hanno impedito di raggiungere un’univoca interpretazione delle scene.

Molteplici i confronti iconografici e stilistici che sono stati istituiti tra le pitture dell’affresco e la ceramica attica ed apula a figure rosse ed anche, ovviamente, le contemporanee pitture delle tombe etrusche e campane. Una particolare attenzione è stata data alla lettura delle fonti, nel tentativo di individuare i personaggi rappresentati, gli avvenimenti narrati e quindi stabilire una cronologia del manufatto; attentamente, sono stati esaminati i passi di Polibio con la dettagliata descrizione dell’armamento romano e di Livio che ci narra episodi della seconda guerra sannitica.

I nomi dipinti vicini ai personaggi principali indicano nel II registro M. Fannius e nel III di nuovo Fannio accanto al personaggio togato Q.Fabio: l’interpretazione che viene data vede il console Q. Fabio Rulliano, cinque volte console e trionfatore morto dopo il 280 a.C., accettare la resa dei generali sanniti nei pressi delle mura di una città vinta e nel frammento del registro inferiore la scena è interpretata, in base appunto alla descrizione delle fonti, come episodi della guerra sannitica alle quali il console ha partecipato; la cronologia del pezzo viene fissata, anche in base allo stile raffinato del primo ellenismo, alla prima metà del III sec. a. C.. Ci troveremmo quindi di fronte alla tomba di un membro della gens Fabia, un Q. Fabio distintosi nel corso della prima metà del III sec. a. C.. La stessa cronologia ma una diversa interpretazione riconosce nelle scene momenti del cursus honorum di Fannio, proprietario della tomba, che riceve dona militaria da parte del generale, un Q. Fabio, dopo essersi particolarmente distinto in azioni di guerra (registro inferiore).

Il pezzo riveste comunque, al di là delle diverse interpretazioni e della qualità assai alta della resa pittorica un’importanza straordinaria poiché evidenzia il carattere di strumento di propaganda che l’ambiente romano attribuiva anche ai monumenti funerari letti, anch’essi, come mezzo per esaltare le proprie glorie o quelle della propria casa.

BIBLIOGRAFIA:

Coarelli 1973, p. 200 ss. (con bibl. prec.)

Opus Sectile [P. 170]

(Maddalena Cima)

Nelle collezioni dell’Antiquarium Comunale esistono alcuni elementi di opus sectile parietale, ovvero di lastre di rivestimento lavorate secondo la tecnica dell’intarsio marmoreo. L’uso di rivestire le pareti di lastre di marmo era già conosciuto in ambiente greco, ma questa particolare tecnica decorativa trova la sua più raffinata espressione nel mondo romano, dove si afferma a partire dal I secolo d. C. Una preziosa testimonianza letteraria ci permette infatti di stabilire una collocazione cronologica piuttosto circoscritta per l’adozione dell’intarsio marmoreo nei rivestimenti parietali. Afferma Plinio (NH XXXV, 2-3):”..perché ora sono tutti tesi alla decorazione marmorea ed a quella aurea, non tanto per coprire di lastre tutte le pareti, ma siamo giunti fino ad utilizzare intarsi di marmi e piccole lastre segate a disegnare figure di oggetti e di animali. Non ci si contenta più di semplici specchiature, né di rivestire i cubicoli di marmi cavati dai monti: si è cominciato a dipingere anche con la pietra. Questa tecnica è stata introdotta sotto il principato di Claudio, ma con Nerone si arrivò a variare l’aspetto unitario delle lastre marmoree creando macchie di colore che non comparivano naturalmente nella pietra, cosicché il marmo numidico assumesse macchie ovali, toni purpurei distinguessero il marmo di Sinnada, per farli apparire quali il lusso raffinato desiderava che fossero stati in natura. Si sopperisce alle deficienze delle cave con tali risorse ed il lusso sfrenato porta a far sì che in caso di incendio la perdita sia la massima possibile”.

Questa particolare tecnica di rivestimento parietale era destinata, come appare anche dalle parole di Plinio, solo alle classi più elevate, se non addirittura alla casa imperiale. Le pietre utilizzate sono quasi tutte di provenienza straniera: il marmo “rosso antico” era cavato al Capo Tenaro, all’estremo sud della penisola ellenica; il “giallo antico” nell’antica Numidia (attuale Tunisia); il “pavonazzetto” presso Sinnada, in Frigia. La complessa organizzazione delle cave e soprattutto dei trasporti navali, necessari a portare a Roma materiali così difficili e pesanti, fecero dei “marmi peregrini” beni estremamente costosi e di lusso. Insieme a questo va considerato un fenomeno di moda, per cui una casa decorata di marmi appariva come una manifestazione del prestigio e del rango sociale raggiunto dal proprietario.

Le prime attestazioni di questo genere decorativo sono accomunate da una medesima tecnica di realizzazione: su una lastra di fondo ricavata in un materiale generalmente monocromo (marmo “rosso antico” o lavagna), adatto a far risaltare i vivaci toni coloristici degli intarsi, venivano praticati incassi secondo il disegno che si desiderava riprodurre; all’interno di essi venivano poi inserite lastrine di vari materiali (marmi o calcari colorati, paste vitree) segate a forma.

Le testimonianze archeologiche concordano perfettamente con i dati forniti da Plinio, dal momento che i più antichi esempi relativi a questo genere decorativo sono databili proprio in età giulio-claudia: appartengono a questo periodo due pannelli pompeiani di lavagna intarsiati con scene figurate (O. Elia, in “BdA”, IX, 1929, p. 263 ss.); una congerie di elementi di intarsio (si è perduta la lastra di fondo) raffiguranti amorini ed elementi vegetali, rinvenuti all’interno di un ninfeo della domus Transitoria di Nerone, e per questo databili con precisione (Th. Dohrn, in “RM” LXXII, 1965, pp. 126 ss.); un’altra serie di elementi disciolti all’interno di un ambiente della residenza imperiale di Baia (Andreae 1983, pp. 160-161). Allo stesso genere, seppure con una collocazione cronologica leggermente più tarda appartengono alcuni frammenti di intarsi parietali su fondo nero dalla villa Adriana di Tivoli (AA.VV., Villa Adriana, Roma 1988, fig. a p. 67)

I materiali presentati nella mostra costituiscono ulteriori attestazioni di questa tecnica decorativa: particolarmente significativa la serie di capitelli di lesena (nn. 405-408) su fondo di “rosso antico”, con intarsi in “giallo antico”, palombino e calcare verde, provenienti dalla residenza imperiale degli horti Lamiani sull’Esquilino. Lo schema corrisponde in linea di massima a quello del capitello corinzio, con l’aggiunta di piccole spighe verdi, simbolo dell’abbondanza. In questi esemplari si può verificare la testimonianza di Plinio sugli artifici utilizzati per variare il colore dei marmi: i margini delle lastrine di “giallo antico” che rappresentano le foglie d’acanto, sono scaldati a fuoco per assumere toni purpurei. Di grande raffinatezza appare anche la decorazione di un altro frammento (n. 409): su una lastra di fondo, sempre di “rosso antico”, è raffigurato un delicato tralcio vegetale, con foglie e fiori. Gli intarsi sono ottenuti con lastrine di “giallo antico”, marmo bianco e pasta vitrea. Un motivo vegetale caratterizza anche una lastrina proveniente dagli sterri per la via del Mare (n. 410): in questo caso però, stranamente, il fondo è ricavato da un marmo venato, probabilmente il “fior di pesco”. Un piccolo fregio (?) (n. 411) è ricavato su una lastra di lavagna: il motivo decorativo comprende una serie di foglie di mirto, rese in palombino, con piccole bacche circolari in “rosso antico”; alcuni incassi circolari che hanno perduto gli elementi dell’intarsio potevano raffigurare rosette. Al centro della composizione un elemento vegetale a forma di punta di lancia è intarsiato a rilievo in pasta vitrea azzurrina. Su una lastra di lavagna (n. 412), che ha purtroppo perduto gli elementi dell’intarsio, si riconosce un fregio a kantharoi e girali, mentre il bordo è scandito da un kymation che doveva essere evidenziato da stucco dorato. L’oro doveva delineare anche le sottili incisioni che compaiono sui due minuscoli capitelli di pilastrino in lavagna (nn. 413-414), uno dei quali mostra ancora al loro posto due piccoli elementi applicati in “rosso antico”: essi dovevano servire a decorare un mobile, oppure un piccolo larario domestico. La stessa tecnica decorativa può essere stata utilizzata anche per il piccolo capitello di lesena in palombino (n. 415): le raffinate incisioni che ne decorano la superficie sono troppo lievi per pensare all’inserimento di lastrine marmoree; meglio vi si adatterebbe un riempimento in stucco colorato o dorato.

Per chiudere la rassegna sui materiali in prezioso marmo colorato delle collezioni dell’Antiquarium, si presenta un piccolo capitello ionico in rosso antico (n.416), proveniente, come i capitelli intarsiati, dall’area degli horti Lamiani. Oltre alla raffinata eleganza delle forme, questo capitello appare particolarmente significativo per la presenza, sulla superficie dell’abaco, dei segni a compasso lasciati dall’artefice come linee di riferimento.

BIBLIOGRAFIA

M. CIMA, in Le tranquille dimore degli dei 1986, pp. 64-65; C. GASPARRI, in “BollMusComRoma”, ns. I, 1987, pp. 3-9.

Affreschi [P. 172]

(Maddalena Cima)

Il repertorio delle pitture conservate all’Antiquarium Comunale, sebbene assai vasto, risulta alquanto frammentario per la natura stessa della decorazione e per le circostanze dei ritrovamenti. Tuttavia il restauro e lo studio dei reperti conservati, ha permesso di recuperare, sia pure in maniera lacunosa, alcuni complessi pittorici provenienti per lo più da abitazioni private, scavati tra la fine dell’800 ed i primi decenni del nostro secolo. Questa documentazione costituisce comunque un momento di grande interesse per la conoscenza della decorazione pittorica romana che per il periodo successivo alla distruzione di Pompei risulta sicuramente più lacunosa e nello stesso tempo dà la misura di una realtà economica e sociale alquanto diversa da quella offerta dalle ricche dimore pompeiane.

I due quadretti provenienti da via dello Statuto (nn. 400-401), ad esempio, con scene di vita quotidiana, rendono testimonianza di una ispirazione “popolaresca” che attraverso una pittura a rapide e dense pennellate che delineano paesaggi e figure come semplici silhouettes, offre una visione d’insieme fresca e vivace. Le casette, la donna che dà da mangiare alle oche, il giovane che si avvia ai campi per quotidiano lavoro, la stessa natura che fa da sfondo ai due episodi, sono in contrasto con quel repertorio di dei, eroi, esseri fantastici che popolano le grandi composizioni pittoriche nelle case più lussuose, mentre trovano elementi di confronto con alcune pitture del caseggiato degli Aurighi ad Ostia (van Essen 1956-58, pp.169 ss.). La datazione di queste due pitture dell’Antiquarium si pone nei primi decenni del III secolo.

Anche nei pannelli con scene idilliaco sacrali, che pure dovevano essere inseriti al centro di pareti con più complesse partiture decorative, i personaggi e le architetture vengono resi con rapide e incisive annotazioni. Si tratta di due scene di sacrificio che si svolgono una in un ambiente campestre (n. 402), l’altra in un paesaggio con strutture architettoniche di sfondo (n. 403). Nella prima esili figurine di donne levano le braccia verso il simulacro di Ecate posto su un alto basamento, mentre da destra avanzano altre figure e un asinello. La luce diffusa dal fondo bianco tende a negare la spazialità e a riportare tutti gli elementi su un unico piano, annullando il connettivo (Mansuelli 1981, p. 277): ciò avviene ad esempio nelle pitture dell’ipogeo di Caivano, che costituisce uno dei riferimenti più noti per la pittura di II secolo (Wirth 1934, p. 87) o nella tomba dei Pancrazi (Wirth 1934, pp. 83 ss.).

Nell’altro pannello (n. 403) ancora due donne compiono offerte dinanzi ad un’erma bacchica: ai lati e sullo sfondo una villa ed un lungo porticato animato da un gruppo scultoreo. Questa scelta tematica, già propria alla cultura ellenistica trova grande favore in ambito romano, impregnandosi di un gusto realistico e se ne può seguire lo sviluppo per tutta l’età imperiale: ai modi del paesaggio si ricollegano ad esempio, ancora nel II secolo, i paesaggi della casa romana sotto S. Sebastiano (Ferrua 1990, p. 62, fig. 19). Per questo dipinto dell’Antiquarium si è voluta proporre una datazione in periodo neroniano-flavio.

Più complessa risulta invece l’articolazione dello spazio negli affreschi distaccati da un ambiente scoperto a fianco della chiesa di S. Crisogono (n. 404) negli anni ’40, pertinente con probabilità ad una domus lungo la via Aurelia. Un recentissimo restauro ha permesso di rimontare le lastre distaccate in maniera tale che i brani di intonaco risultino posizionati nello stesso modo in cui si intravvedono nelle foto di scavo; tuttavia per esigenze di esposizione ne viene presentata solo una parte e comunque senza considerarne la successione lungo le pareti. Al di sopra di uno zoccolo diviso in pannelli con un cigno o un delfino al centro, si alternano edicole con animali volanti (pantera, cervo, cavallo) a pannelli delimitati da colonnine abbinate, al centro dei quali sono divinità (Mercurio, Diana, Giove). Cesti, teste di stagione, ghirlande, completano la decorazione che pone le figure su un fondo bianco mentre il resto della parete è scandito da fasce campite di color rosso-bruno, rosso acceso e giallo. Alla datazione delle strutture laterizie dell’edificio alla fine del I secolo, fanno riscontro nella pittura il recupero dello stile prospettico, la partizione della parete a pannelli ed una sobrietà decorativa che si possono assimilare a quel ripensamento classicistico proprio del periodo tardo-flavio e traianeo, peraltro assai poco documentato (cfr. la villa di Orazio a Licenza: Mielsch 1990, pp. 190-191 con bibl.).

BIBLIOGRAFIA

Borda 1958, p. 308 (n. 400 – 401); p. 90 (404); De Vos 1968 – 69, pp. 165 – 170 (n. 404), affreschi 1976, p. 42 C (n. 400 – 401; pp. 36 – 37 (n. 403); Mansuelli 1981, p. 275 (n. 404); p. 299 (n. 400 – 401); Moorman 1988 p. 81 cat. 331 (n. 403), cat. 332 (n. 402).

I vetri [P. 173]

(Carla Martini)

La collezione degli oggetti in vetro dell’Antiquarium Comunale per lo più formatasi attraverso i rinvenimenti fatti nel territorio di Roma costituisce, insieme a quella del Museo Nazionale Romano e alle raccolte del Vaticano, un’importante testimonianza per la conoscenza delle produzioni locali e dei movimenti commerciali che interessarono la città sopratutto nel periodo imperiale.

Di questa raccolta, che è costituita da circa 3.200 reperti, che coprono un ampio arco cronologico che va dal I sec. a. C. fino ad epoca tarda, si è voluto in questa occasione esporre gli oggetti realizzati esclusivamente con la tecnica della soffiatura effettuata sia a stampo sia a canna libera.

L’introduzione della tecnica della soffiatura portò ad una grande diffusione degli oggetti in vetro sia per la rapidità di fabbricazione e la possibilità di creare un’ampia varietà di forme sia per il conseguente abbassamento dei costi di produzione e di vendita rispetto alle tecniche precedenti (modellatura su nucleo friabile, intaglio a freddo di forme grezze, colatura a stampo). Ben presto, dunque, gli oggetti in vetro entrarono a far parte della vita quotidiana accanto a quelli in ceramica e metallo, di cui frequentemente imitano le forme, che fino ad allora avevano costituito il vasellame di uso comune.

Non si hanno testimonianze dell’esistenza di officine vetraie a Roma prima della fine della repubblica; sembra infatti che le prime officine fossero state impiantate nella città solo nel I sec. a. C. da artisti alessandrini e che vi si producessero inizialmente oggetti colati a stampo, come piatti e coppe a merletto, strisce e forme molteplici di vetro monocromo. Solo nella I metà del I sec. d. C. si passò ad una produzione di vetri soffiati come le coppe con nervature e marmorizzate e vari recipienti di vetro monocromo (Grose 1983, p. 45); del resto il momento della nascita della tecnica della soffiatura rimane non certo anche se recenti scoperte inducono a stabilire l’inizio di questa produzione nella I metà del I sec. a. C. in area medio orientale (Harden in Vetri dei Cesari, pp. 87 ss.). Una esemplificazione della potenzialità produttiva di questa nuova tecnica è data da una particolare classe di materiale, gli unguentari, che ebbe una immediata e larghissima diffusione in tutte le regioni dell’impero romano. L’ampia varietà di forme e di colori è testimoniata sia in occidente che in oriente e mostra una evoluzione comune, senza però escludere che alcune tipologie perdurino attraverso i secoli senza sostanziali mutamenti.

Nella collezione dell’Antiquarium tale classe è riccamente documentata da unguentari tubolari, piriformi (n. 120-127), globulari, sferoidali (n. 128-132), ovoidali e troncoconici; nel I sec. d. C. predominano forme piuttosto piccole che tendono ad ingrandirsi verso la fine dello stesso secolo, come viene esemplificato dagli unguentari a corpo campaniforme (n. 133-134) e troncoconico (n. 135-139) nei quali si avverte una progressiva tendenza all’appiattimento del corpo fino ad arrivare, nel II e III sec. d. C., a contenitori con corpo piatto e lunghissimo collo cilindrico, che probabilmente assolveva alla funzione di rallentare l’evaporazione delle essenze ed olii profumati che dovevano contenere.

Nel IV e V sec. d. C. si diffondono gli unguentari a corpo doppio (n. 140-143) o multiplo di origine siriano-palestinese (cfr. Hayes 1975, p. 88, tav. 28-29). Alla stessa classe degli unguentari appartengono le ancorette con corpo terminante a punta (n. 144-146) diffuse in tutto l’impero romano (Calvi 1968, pp. 23-24) già dal I sec. d. C., le bottigliette a corpo dischiforme (n. 147-149) del III sec. d. C. ed una bottiglia quadrangolare della serie “Mercury bottles” del III sec. d. C. soffiata a stampo (n. 150) (Isings f. 84).

Altri tipi di contenitori sono l’aryballos in vetro pesante verde – blu della seconda metà I sec.-II sec. d. C. (n. 151), la bottiglia su piede del II-III sec. d. C. (n. 152) e le brocchette con filo applicato (n. 153-156) delle quali la prima presenta un corpo globulare decorato con depressioni, del I sec. d. C., mentre le altre sono produzioni del III-IV sec. d. C.. Le coppette esemplificano varie tipologie: coppetta emisferica su piede soffiata a stampo (n. 157), coppetta a pareti verticali (n. 158), coppetta a corpo campanulato (n. 159) ed una coppetta carenata (n. 160), tutte riconducibili al I sec. d. C. Un accenno particolare si può fare al bicchiere troncoconico decorato con tralci vegetali, del I sec. d. C., di vetro intagliato a rilievo, che si rifà a prototipi di metallo o di cristallo di rocca (n. 161); la grande hydria cilindrica monoansata (n. 162) (Isings f. 126) è un esemplare di fine III sec. – inizi IV di una tipologia nota già nel I e II sec. diffusa in tutte le provincie dell’impero il cui uso si prolunga fino al IV sec. mentre la bottiglia con corpo ovoidale (n. 163) è un prodotto tardo riconducibile all’epoca bizantina; particolare è la bottiglia contagocce, soffiata a stampo, di produzione sirio –palestinese del III sec. d. C. (n. 164) (cfr. Hayes 1975, n. 282, tav. 22).

Per chiudere questa rassegna di oggetti in vetro si presentano una serie di armille in vetro e pasta vitrea (n. 165-176) e tre vasetti miniaturistici di epoca imperiale romana (n. 177-179).

Una tipica produzione occidentale è quella delle olle destinate a contenere le ceneri dei defunti: l’olla ovoidale con coperchio (n. 180) (Isings f. 67) e l’olla con doppia ansa ad omega (n. 181) (Isings f. 64) si possono collocare nella seconda metà I-II sec. d. C., mentre l’olla con doppia ansa ad angolo retto è un tipo più tardo da collocare tra la fine del II sec. d. C. e il III sec. d. C. (cfr. Fremersdorf 1975, p. 60, n. 532 tav. 24) (n. 182).

Da ultimo un oggetto particolare, quale l’olla olearia da palestra (n. 232) della fine I-inizi II sec. d. C. (cfr. Auth 1976, p. 118, n. 143).

BIBLIOGRAFIA

Inn. 120.149, 151-155, 157-160, 162, 164 sono pubblicati in Bellezza e seduzione 1990, pp. 90-98; per il numero 161 v. da ultimo Vetri dei Cesari, p. 90 n. 100.

Oggetti di bronzo [P. 175]

(Laura Ferrea)

Non tutti i reperti dell’Antiquarium Comunale sono stati acquisiti direttamente in seguito a scavi o rinvenimenti fortuiti: in questa classe più che in altre troviamo oggetti pervenuti nelle collezioni del Museo per acquisto o per donazione.

Il tripode pieghevole con relativo catino a vasca semicircolare (n. 183), ad esempio, fu donato nel 1752 da Benedetto XIV, dopo aver fatto parte della collezione del Card. Chigi e prima ancora del Museo Gualdi.

La maggior parte dei pezzi proviene comunque dagli sterri eseguiti verso la fine del 1800 per la trasformazione edilizia di interi quartieri di Roma; furono così recuperati innumerevoli oggetti bronzei relativi ai vari aspetti della vita quotidiana, il cui notevole valore documentario è però a volte ridotto dalla perdita dei riferimenti di provenienza (già ricordata a proposito delle altre classi di materiali cosiddetti “minori”).

In occasione degli scavi intrapresi dal 1872 per l’eliminazione del cosiddetto “Monte della Giustizia”, altura artificiale nei pressi della Stazione Termini, furono messi in luce i resti di numerosi edifici privati di età imperiale, conservati in alcuni casi i resti della pavimentazione musiva e della decorazione parietale dipinta, poi dispersi; da questi edifici provengono numerosi frammenti bronzei pertinenti alla decorazione ed alla struttura degli arredi domestici.

In una casa furono recuperati l’applique a busto di satiro, con corona vegetale e nebride, (n. 184) e quella con busto femminile diademato (n. 185), che presenta sul retro un incasso rettangolare per il raccordo con gli elementi lignei del mobile a cui apparteneva; ed ha analoga provenienza la terminazione di fulcrum di letto tricliniare a forma di protome di mulo (n. 186), motivo collegato al mondo dionisiaco che ha goduto di grande diffusione nella prima età imperiale in tutto il mondo romano.

Ad un altro complesso abitativo della medesima zona vanno invece riferiti l’applique a forma di busto maschile con elmo crestato e spada in pugno (n. 187) e altri interessanti elementi di mobili, forse sedie o sgabelli, che conservano parte dell’intelaiatura in ferro, su cui sono applicati bustini maschili sorgenti da un calice (nn. 188-189) o, per le zampe, piccoli piedi umani in bronzo (n. 190).

Si tratta dello stesso edificio in cui erano stati rinvenuti gli elementi preziosamente intarsiati in argento con i quali venne ricostruita da A. Castellani la “lettiga” del Museo del Palazzo dei Conservatori (Stuart Jones 1926, pp. 178 s., n. 12, tavv. 64-66), forse invece pertinenti ad altri tipi di mobili.

Nell’Antiquarium sono conservati molti altri oggetti per uso domestico provenienti da questa casa: sono qui esposti un grande catino baccellato forma di conchiglia (n. 191), per l’igiene personale, e due lucerne in bronzo (nn. 192-193); un piccolo busto di Mercurio frammentario (n. 195), sempre interpretato come peso per stadera a causa di un foro di sospensione sul petaso (in analogia con analoghi esemplari; v. per es. a Pompei: Museo Naz. Napoli 1989, p. 192 s., n. 133), essendo cavo internamente potrebbe avere una diversa utilizzazione.

Era stato messo in luce anche il larario dell’edificio, in forma di piccola edicola dove venivano venerati i numi domestici, a cui va ricollegata la bella statuetta di Lare danzante del Museo dei Conservatori (Stuart Jones 1926, p. 286 s., n. 3, tav. 115); si espone in questa sede un altro esemplare di soggetto analogo (n. 197) rinvenuto sul Viminale negli stessi anni, accanto ad altre due statuette di Lari di ignota provenienza che a differenza di esso hanno conservato gli attributi: uno patera e cornucopia (n. 198), l’altro patera e rhyton (n. 199).

In un ambito cultuale, di larari domestici o di santuari, vanno inquadrate anche le due statuine di divinità femminili in esposizione, di modesta esecuzione: quella che raffigura Minerva (n. 200) proviene con analoghi esemplari dalla zona del Verano, l’altra, di Iside-Fortuna (n. 201), era stata ritrovata sull’Esquilino.

Dovevano costituire dei motivi decorativi applicati sia il gruppo di pantera con piccolo (n. 202), che forse ornava un carro, che la divinità femminile con fasci di spighe, inquadrata entro un’edicola con le cortine aperte (n. 203), della tarda età imperiale.

Nelle collezioni dell’Antiquarium sono conservati numerosi strumenti bronzei dei tipi più disparati, che documentano le varie attività della vita di tutti i giorni ed i diversi mestieri (trovano puntuale confronto con materiali molto affini da Pompei (Museo Naz. Napoli 1989, pp. 174 ss.) e da Ostia (Pavolini 1986).

Si presentano in mostra compassi (n. 204-205), uno dei quali con dispositivo per bloccare l’apertura, e pesi per filo a piombo (nn. 206-208), tipici strumenti di precisione utilizzati da muratori e tagliapietre, carpentieri e falegnami, come testimoniano i rilievi funerari e le insegne di bottega relativi ad artigiani operanti in questi settori (v. Adam 1988, pp. 41 ss., figg. 78-84, 224, 228).

Ad un uso medico e farmaceutico riconduce invece un altro gruppo di oggetti: bisturi, sonde auricolari, sonde a cucchiaio, spatole, pinzette, bilancino (nn. 209-225), alcuni dei quali potevano trovare utilizzazione anche in campo cosmetico; sono anch’essi documentati da rilievi che riproducono astucci chirurgici aperti (v., anche per gli strumenti, Ars medica 1991).

Tra le molte bilance e stadere, per lo più frammentarie, raccolte nell’Antiquarium Comunale le due qui esposte (nn. 226-227) rappresentano gli esemplari più notevoli, anche per dimensioni: quella con peso a testa femminile fu rinvenuta alla fine del 1800 nell’area di Villa Aldobrandini sul Quirinale.

La teca di specchio con scena erotica a rilievo (n. 228), il pettine di piombo (n.229), inquadrabili nell’ambito del I sec. d. C., e il più tardo ago crinale con capocchia a forma di capitello corinzio sormontato dalle figure di Eros e Psyche abbracciati (n. 230) sono oggetti pertinenti alla cura della persona, così come lo strigile (n. 231), l’ampolla olearia vitrea con rivestimento in bronzo (rinvenuta insieme ad esso sull’Esquilino; n. 232) e la patera di uso termale (n. 233), che riportano all’ambiente della palestra e delle terme.

Fanno parte dell’instrumentum scriptorium gli stili (nn. 234-235), con una estremità a punta per scrivere sulle tavolette cerate e l’altra a scalpello per cancellare, ed i raschietti a lama tagliente (nn. 236-237) per grattare invece la scrittura ad inchiostro (cfr. esemplari ed affreschi di Pompei: Cavallo 1991, figg. 202-206, 223, 225).

Le iscrizioni apposte sul collare (n. 238) e la piastrina (n. 239) appartenuti a schiavi documentano la loro condizione di totale dipendenza dai rispettivi padroni: contengono infatti la raccomandazione di bloccare il loro portatore, in caso di fuga, e l’indirizzo a cui riconsegnarlo. Sul collare si legge: Servus sum dom(i)ni mei Scholastici v(iri) sp(ectabilis) tene me ne fugiam de domo pulverata e sul pendaglio: Tene me| ne fugia(m) et| revoca me| at ni(n)feum| Alexa|ndri.

Si espongono solo pochi esemplari di vasellame bronzeo, presente invece nelle collezioni dell’Antiquarium con un discreto numero di pezzi piuttosto ben conservati: due situle con doppio manico (nn. 240-241), una brocchetta monoansata (n. 242), un colino (n. 243) e una piccola fiasca (n. 244).

BIBLIOGRAFIA

“BullComm”, 1872, p. 300 n. 6 (statuetta di Minerva n. 200);. “BullComm”, 1876, p. 222 n. 3 (statuetta di Iside-Fortuna n. 201);. “BullComm”, 1892, p. 11 ss., tav. I (collare di schiavo n. 238);. Stuart Jones 1926, pp. 285 ss., nn. 2 (Lare n. 197), 4 (applique n.185), 5 (toro n. 196), 6 (applique n. 184), 14 (stadera n. 227 e busto di Mercurio n. 195), 17 (stadera n. 226), 20 (protome di mulo n. 186), 28 (applique n. 187), 46 (specchio n. 228);. Colini 1929, p. 34 s., tavv. LX-LXIV;. “BullMuseiComRoma”, IV, 1957, pp. 20-23 (placchetta di schiavo n. 239);. “BullMuseiComRoma”, V, 1958, pp. 39-40 (dea in edicola n. 203);. L’archeologia racconta 1988, p. 67 n. 12 (patera termale n. 233), p. 68 n. 13 (strigile n. 232);. Bronzo dei Romani 1991, p. 259 n. 16, figg. 95-97 (tripode n. 183);. Bellezza e seduzione 1990, pp. 99-101, nn. 143 (catino n. 191), 145 (specchio n. 228), 146 (ago crinale n. 230), 147 (pettine n. 229), 148, 156-158, 160-161 (strumenti medici e cosmetici nn. 209-225).

I Ferri [P. 179]

(Carla Martini)

La classe di oggetti in ferro, di cui l’Antiquarium Comunale conserva una svariata serie di esemplari, pur non costituendo l’esplicazione di una produzione artistica è una fonte preziosa per ciò che concerne le attività artigianali nell’antichità.

Nell’ambito di questa collezione si trovano i più disparati oggetti in ferro, dalle armi ritrovate nelle tombe dell’Esquilino alle cerniere delle porte e gli scontri di serrature agli utensili che più strettamente si collegano all’opera ed al lavoro dell’uomo.

Purtroppo si sono persi i dati di provenienza di quasi tutti questi oggetti anche se sappiamo dalle notizie di archivio quanto siano stati vasti i ritrovamenti nell’ambito degli scavi che sconvolsero la città di Roma tra la fine dell’800 e gli inizi del 900; questi oggetti vengono descritti insieme ad altri materiali all’interno di costruzioni pubbliche e private talvolta come nuclei informi saldati dal fuoco degli incendi che in antico avevano distrutto gli edifici stessi.

Gli utensili in ferro hanno una loro precisa caratteristica che stupisce chi li guarda e, allo stesso tempo, confonde gli elementi per una datazione precisa: essi, infatti, mostrano una inaspettata continuità nelle forme dall’antichità fino ad oggi.

Tra gli utensili si possono evidenziare diverse categorie in base alla funzione a cui dovevano assolvere; infatti, tra gli altri, si distinguono attrezzi per la lavorazione della pietra, per il taglio e la lavorazione del legno e per l’agricoltura.

Della prima categoria si hanno numerose testimonianze come i cunei, che servivano per staccare i blocchi di pietra dalle cave e per suddividere il blocco stesso in più parti, e le seghe che venivano anch’esse utilizzate per il taglio dei blocchi. Una volta tagliato il blocco questo veniva lavorato con una serie di attrezzi che potevano essere a percussione indiretta, come scalpelli (n. 334), punteruoli, gradine e sgorbie, o a percussione diretta cioè composti da un elemento di metallo munito di manico ed usati da soli. Di questo secondo gruppo si conoscono il piccone a due punte, il martello-piccone che ha la testa squadrata da un lato ed appuntita dall’altro, l’ascia-martello con parte a sezione quadrata e penna parallela al manico (nn. 335, 336) e martelli a due punte, ovvero asce a doppio taglio, con i taglienti che possono essere uno in asse con manico e l’altro perpendicolare ad esso (n. 337), detto anche piccozza a tagli ortogonali o scalpellina, od entrambi in asse con il manico (n. 338).

La cazzuola (n. 339) è anch’esso un attrezzo relativo al lavoro del muratore così come un particolare tipo di zappa, la marra, (n. 340) che, avendo la lama che forma un angolo acuto con il manico, doveva servire a mescolare vari elementi e alla eliminazione dei grumi nella composizione della malta.

Gli strumenti usati nel taglio e nella lavorazione del legno sono fondamentalmente le asce che qualora presentino la testa a forma di martello prendono in nome di accetta ad un solo taglio (nn. 341, 342, 343). Al mondo agricolo appartengono attrezzi quali il piccone da scasso (n. 344), la falce (n. 345), la punta d’aratro (n. 346), il rastrello (n. 347), i due bidenti (nn. 348, 349), la zappa ad accetta (n. 350). Relativo, probabilmente ai lavori di tintori è il gancio che doveva tirare su dalle vasche gli indumenti (n. 351).

Tutti questi attrezzi sono testimoniati in rilievi e pitture di carattere storico e funerario che riproducono momenti di vita quotidiana e che sono attestati in tutte le provincie dell’impero.

Tra gli oggetti di uso quotidiana troviamo il treppiede (n. 352), le chiavi (nn. 353, 354, 355, 356) ed il lucchetto rivestito di fascette in bronzo (n. 357).

BIBLIOGRAFIA

Per gli utensili vedi: B. Champion, Outils en fer du Musée de Saint-Germain in «Revue Archéologiche», V s, III, 1916, pp. 211-246.

Per la tecnica e l’uso vedi: Adam, 1988.

Gli avori e gli Ossi [P. 180]

(Emilia Talamo)

Il contatto con il mondo greco e l’approccio con la raffinata civiltà ellenistica modifica sostanzialmente il gusto della società romana e porta all’introduzione di beni di lusso che affluiscono da tutto il mondo conosciuto per testimoniare come “status symbol” la grandezza e la magnificenza di Roma. Si diffondono, quindi, con grande profusione materiali eseguiti in avorio che riscuotono uno straordinario successo per la calda tonalità della materia prima sottolineata dal gioco delle sue naturali venature sapientemente impreziosite da una squisita tecnica di intaglio e di lavorazione.

Originali realizzati con la tecnica crisoelefantina giungono a Roma dalla Grecia come la statua di Atena da Tegea esposta da Augusto nel Foro Romano dopo la battaglia di Azio (Pausania VIII, 46, 4); ritratti di illustri personaggi vengono scolpiti in avorio come la statua di Cesare che viene portata in processione durante i giochi circensi (Dione Cassio XLIII, 45, 2-4); mobili in legno pregiato (tuia, cedro del Libano, ebano) destinati all’arredo delle sale da banchetto, come i letti tricliniari e i piccoli ed eleganti tavoli a tre zampe, sono rivestiti da mirabili composizioni eburnee. Anche nella sfera funeraria la committenza romana si adegua ai costumi greci adottando articoli di lusso propri dei dinasti ellenistici: su letti impreziositi da squisite applicazioni in avorio vengono cremati i più importanti personaggi della vita pubblica ed ovviamente gli imperatori (così Cesare: Suet., Caes. LXXXIV, 1; Augusto, Pertinace e Settimio Severo: Herod. IV, 2, 2 ss.; v. anche letto in osso da una tomba dell’Esquilino n. 427).

A partire, quindi, dalla fine del I secolo a.C. una clientela sempre più vasta ricerca i raffinati oggetti in avorio su un mercato che con difficoltà riusciva ad ottenere questo tipo di articoli di lusso e, comunque, non a prezzi accessibili a tutte le classi sociali.

Il rifornimento sia di zanne di avorio, proveniente dall’Egitto o attraverso le strade carovaniere dall’India, sia di oggetti già lavorati risultava, infatti, abbastanza limitato per la rarità della materia prima. Come alternativa venne, perciò, utilizzato l’avorio fossile sfruttando cioè i ricchi giacimenti di mammuth della Russia, ma ci si rivolse soprattutto alla lavorazione dell’osso, un surrogato più modesto ma di più facile reperimento rispetto all’avorio. Esso consentiva di ottenere oggetti simili, almeno a prima vista, ed ad un prezzo decisamente inferiore rispetto alle rare e pregiate composizioni eburnee.

La lavorazione dell’avorio e dell’osso era molto probabilmente eseguita dalle stesse maestranze artigianali: simili sono le tecniche di lavorazione (dall’immersione in acqua per conferire elasticità, ai sistemi di pressa, di stiramento ed infine di taglio, in senso longitudinale, in blocchetti o lamine fino alla lavorazione a tornio, alla resa a tutto tondo e ad intaglio) ed uguali risultano anche gli schemi decorativi e le forme degli oggetti che risultano ovviamente condizionati dalle richieste della committenza.

In età tardo repubblicana è possibile ipotizzare l’arrivo a Roma di oggetti eseguiti in officine greche o, molto più probabilmente, greco orientali che secondo una millenaria tradizione erano situate nelle zone più vicine ai centri di estrazione della materia prima, o soprattutto dalle botteghe attive ad Alessandria che a partire dall’età ellenistica diviene il centro di una fiorente scuola dell’arte dell’avorio. Ma non è da escludere il fenomeno, peraltro già documentato per numerose altre scuole artistiche, del trasferimento di intere maestranze artigianali a Roma in modo da poter venire incontro alle esigenze sempre più pressanti della nuova clientela assurta al potere.

Alla scuola alessandrina va riportato un particolare tipo di tessere, eseguite nella maggior parte dei casi in avorio, che presentano sul dritto figurazioni desunte dal vasto repertorio ellenistico egiziano: si veda per es. il n. 256 con albero di palma ed i nn. 257-258, l’uno con busto femminile coronato da cercine che riprende l’acconciatura di Livia e l’altro con raffigurazione di Chronos, la divinità che allegoricamente rappresenta il trascorrere del tempo (per questa produzione che ci conserva un’ampia documentazione della ritrattistica degli ultimi dinasti tolemaici, ivi compresa Cleopatra, e di Cesare e di numerosi quadretti con monumenti e oggetti rituali alessandrini cfr.: Alföldi Rosenbaum 1975, pp. 13-20; Alföldi Rosenbaum 1976, pp. 205-239; Alföldi Rosenbaum 1980, pp. 29-39). Dal momento che sul rovescio delle tessere sono indicati numerali espressi con una lettera greca ed una latina e poiché molte di queste raffinate pedine vennero rinvenute in corredi funerari di bambini, è possibile pensare che si tratti degli elementi di un gioco. E’ un passatempo inventato ad Alessandria e diffuso poi a Roma all’epoca di Giulio Cesare e di Augusto – ne fanno fede i numerosi ritratti di quest’epoca raffigurati sulle tessere – nel momento cioè in cui sono più strette le relazioni politiche ed economiche tra Roma e l’Egitto. Alla stessa epoca e ad una simile manifattura vanno riportate anche alcune pissidi di forma cilindrica che presentano temi decorativi cari all’ambiente (Srzygowski 1902, p. 77; Béal-Feugére 1983, pp.115-126; Peters 1986) e ripropongono sul coperchio le stesse figurazioni documentate sulle tessere da gioco (il busto femminile che compare sul n. 273 è identico alla Musa rappresentata su una tessera del Museo Naz. Di Napoli: Alföldi Rosenbaum 1980, p. 30, n. 18, tav. 9, 3). Le scatoline sono realizzate sia in osso sia in avorio e presentano uno stile abbastanza diversificato che denuncia l’opera di artisti ora più profondamente permeati di cultura ellenistica (n. 274) ora più distaccati da questo orizzonte artistico al quale si uniformano con una certa difficoltà (n. 273). La diffusione di questa classe è molto ampia e copre tutte le provincie imperiali (dalle coste del Mar Nero alla Gallia, all’Italia) ma la loro richiesta sul mercato è decisamente legata più che al singolo raffinato contenitore al suo più ricercato contenuto, che era costituito probabilmente da ciprie colorate (resti di fards si sono rinvenuti, infatti, in numerosi esemplari) provenienti dall’Oriente e forse anche da quelle fabbriche site sul Mar Morto di proprietà già di Erode il Grande e poi di Cleopatra e famose, per la loro qualità, in tutto il bacino del Mediterraneo. Le scene raffigurate sulle pissidi caratterizzate da temi intenzionalmente orientali potrebbero, quindi, rappresentare un’etichetta di autenticità che denuncia l’origine del prezioso cosmetico (E. Talamo, in Bellezza e Seduzione 1990, p. 102).

Ad un ambiente propriamente romano vanno riportati alcuni preziosi documenti particolarmente significativi dal punto di vista storico ed antiquario, le tessere nummularie (Herzog 1937, pp. 1415-1455). Si tratta di marche di controllo apposte sui sacchetti di monete da personale addetto che siglava la placchetta di avorio con il suo nome, quello del suo padrone e vi aggiungeva l’indicazione della data, completa del mese e dell’anno espresso dal nome dei consoli in carica (nn. 263-266).

Questa particolare funzione di controllo risulta documentata a partire dalla seconda metà del I secolo a. C. (si noti in particolare la tessera, n. 266, apposta sotto il secondo consolato di M. Emilio Lepido e di L. Munazio Planco) fino ad epoca flavia.

In osso o avorio sono realizzati i numerosi oggetti legati al mondo femminile, come gli spilloni per abbellire e fermare le complesse acconciature che presentano sulla sommità piccoli busti a volte eseguiti con una splendida decorazione miniaturistici (n. 317) ma soprattutto l’attrezzatura utilizzata nella sfera della cosmesi come spatole, cucchiaini, miscelatori (n. 291-292, 321-328) che, per il tipo di materia prima in cui erano realizzati, non alteravano profumi, essenze e creme così facilmente deperibili.

Allo stesso ambito vanno riportate le bambole, rinvenute in corredi funerari di media e tarda età imperiale (nn. 285-290), che rendono la figurina in maniera estremamente schematizzata, tranne in rari esemplari come p. es. nel piccolo capolavoro di intaglio scoperto nella tomba di Crepereia Tryphaena (v. n. 435).

Impugnature di coltelli a serramanico con figure di animali (271), con raffigurazioni caricaturali (n. 269 cfr. in particolare Alföndi Rosenbaum 1984, pp. 378-390) o con scene di genere (n. 272) riportabili alla prima metà del I secolo a. C. ed ancora strettamente connesse alla cultura ellenistica danno inizio ad una produzione particolarmente diffusa nel corso dell’età imperiale; si passa da una decorazione plastica come nella presa a forma di gladiatore con grosso scudo rettangolare (n. 268 simile ad un esemplare raffigurante il gruppo di un retiarius e un secutor da Avenches: Bron 1985, pp. 33 ss., figg. 4-5) a più semplici decorazioni rese ad incisione come nel n. 267 in cui si ricorda una famosa vittoria equestre. Raffigurazioni legate all’ambiente circense corrono distinte in registri sul corpo di uno stilo (n. 300) secondo un uso abbastanza raro visto che generalmente si ritrova una decorazione plastica alla sommità di questa caratteristica produzione destinata a scrivere sulle tavolette cerate.

Innumerevoli sono inoltre le placchette, i pomelli, le terminazioni che rivestivano l’intelaiatura in legno di mobili, letti, tavoli e cofanetti. La forma di questi arredi si riesce a ricostruire con notevoli difficoltà dal momento che la struttura portante lignea è andata persa e che per la ricomposizione ci si deve basare esclusivamente sulla loro raffigurazione in scultura e nella decorazione pittorica e musiva. Ciò nonostante la preziosa documentazione in osso o avorio ci attesta la raffinatezza e l’eleganza di questo mobilio nonché la perizia di maestranze artigianali specializzate nelle singole classi come i fabri lectarii per i letti tricliniari o gli eborarii citrarii per tutti gli arredi in cedro del Libano e avorio (Barnett 1982, pp. 71 ss., nota 89).

BIBLIOGRAFIA

Gli ossi e gli avori dell’Antiquarium sono citati negli elenchi degli oggetti rinvenuti nella serie del Bullettino della Commissione Archeologica del Comune di Roma. Per una presentazione più specifica delle tessere nummulari cfr. C. Pietrangeli, in “BullCom” 1940, p. 200. Una selezione degli oggetti connessi con la cosmesi femminile è stata presentata nel catalogo della mostra Bellezza e seduzione 1990, pp. 101-107 (E. Talamo).

Terra sigillata [P. 183]

(Laura Ferrea)

Le varie classi di vasellame fine da mensa di età imperiale, caratterizzate da una vernice rossa o arancione, sono rappresentate nelle collezioni dell’Antiquarium Comunale da esemplari per lo più frammentari rinvenuti in diverse zone di Roma.

Bisogna lamentare anche in questo caso la mancanza pressoché generalizzata di dati di provenienza che consentano di ricollegare i pezzi ad un determinato contesto di scavo, inevitabile conseguenza dell’attribuzione ottocentesca alla classe degli oggetti “minori” e dello smembramento dei complessi di materiali provenienti da uno stesso luogo in gruppi omogenei per materia e tipologia.

E non sono di grande aiuto, per un tentativo di recupero dei dati di rinvenimento, le indicazioni riportate nei resoconti di scavo (o nei vari elenchi successivamente compilati) a causa della genericità delle descrizioni e dell’uso del termine “ceramica aretina” per indicare indistintamente tutte le varie produzioni con vernice di color rosso.

Per la terra sigillata italica e sud-gallica elementi di individuazione sono rappresentati dai bolli di fabbricazione, con il nome dell’officina o dell’artigiano, a volte anche combinati con graffiti incisi sui vasi stessi.

Sono conservati nell’Antiquarium Comunale più di 1300 di questi frammenti bollati, utili per la conoscenza della diffusione di questo vasellame a Roma nella prima età imperiale. Alla fine del 1800, all’epoca del rinvenimento, erano stati tutti trascritti e pubblicati nel CIL; in seguito furono ammucchiati nei depositi dei Grottoni sotto al Campidoglio, fra i materiali di minor interesse, dove sono stati recuperati solo di recente.

La grande coppa esposta di terra sigillata italica decorata a rilievo (n. 248), a matrice con motivi vegetali nella parte inferiore e con eroti su delfini applicati sotto l’orlo, conserva anche un bollo rettangolare compreso nella matrice esterna, purtroppo non leggibile; imita nella forma e nella decorazione analoghi oggetti metallici ed è inquadrabile cronologicamente tra la fine del I sec. a. C. e gli inizi del I sec. d. C..

La terra sigillata di fabbricazione africana nella media e tarda età imperiale soppiantò le produzioni precedenti diffondendosi in tutto il bacino del Mediterraneo contemporaneamente allo sviluppo del commercio di olio, vino ed altre derrate alimentari dall’Africa proconsolare e dalla Mauretania. Sono presenti in mostra due coppe carenate decorate esternamente a rotella di terra sigillata africana A (nn. 249-250), di identica forma ma di dimensioni diverse, databili tra la fine del I e la prima metà del II sec. d. C..

Allo stesso II sec. d. C. vanno riferiti la borraccia a corpo lenticolare (n. 251) ed il guttus a corpo biconico (n. 252), sempre in sigillata africana A.

La borraccia di maggiori dimensioni in terra sigillata africana C, anch’essa a corpo lenticolare ma con il collo piegato lateralmente (n. 253), è di produzione più tarda, del III sec. d. C.; quello conservato nell’Antiquarium Comunale è l’unico esemplare finora noto di questo tipo.

Si colloca infine nel V sec. d. C. il grande piatto di terra sigillata africana D con decorazione a palmette impresse a stampo sul fondo (n. 254).

BIBLIOGRAFIA

CIL XV, 2, esemplari con collocazione: “repositum urbis”. (framm. con bollo, non esposti).. Colini 1929, tav. LII, 1 (coppa n. 248);. Atlante I, p. 77, tav. XXXI, 18 (borraccia n. 253)

Materiali Tardo Antichi [P. 184]

(Margherita Albertoni)

Ad età tardoantica sono da riferire alcuni oggetti dell’Antiquarium Comunale pertinenti alla sfera della suppellettile di lusso destinata alle classi più abbienti.

Primo fra tutti in ordine di tempo è il dittico d’avorio di Gallieno Concesso (n. 366) riferibile all’inizio del III secolo d. C. e rinvenuto nel 1874 in un antico macellum presso la chiesa di S. Antonio all’Esquilino (P. E. Visconti in bibl.). Costituito da due tavolette o valve riunite per mezzo di anellini, esso presenta la parte centrale dei lati interni lievemente incassata per essere spalmata da un sottile strato di cera dove era possibile scrivere. Una volta richiuse, le due valve venivano legate con nastri ed assicurate alla cintura. Si scriveva con un appuntito stilo che poteva essere in ferro o in rame; molto comuni erano anche quelli d’osso che presentavano l’altra estremità ingrossata per cancellare, possibilità quest’ultima particolarmente apprezzata da Quintiliano: “Scribi optime ceris, in quibus facillima est ratio delendi” (Inst. Or., X, 8).

Probabilmente durante il IV secolo comincia l’uso di donare dittici all’inizio dell’anno ai nuovi consoli ed agli alti funzionari appena nominati. Questi diventano pertanto oggetti di particolare prestigio e vengono a volte intagliati nel lato esterno con ricchezza proporzionata al grado del funzionario; splendidi e di grandi dimensioni quelli destinati all’imperatore.

Il dittico dell’Antiquarium, di forma allungata e cuspidata, è invece liscio e privo di particolari decorazioni pur essendo pertinente ad un vir clarissimus, ad un senatore appunto, come viene ricordato nell’iscrizione apposta sul lato esterno delle valve.

Le lastrine d’osso decorate ad incisione dovevano invece costituire il rivestimento di cofanetti destinati a contenere gioielli o oggetti da toletta.

Alcuni di questi, conservati integralmente, hanno forma parallelepipeda con pesante coperchio tronco-piramidale e sono stati trovati per lo più in Egitto, dove probabilmente essi venivano prodotti e dove, grazie al particolare clima, si è potuta conservare sia la scatola lignea di supporto sia la decorazione colorata. Paste colorate, infatti prevalentemente nere, rosse e verdi, venivano utilizzate per sottolineare il disegno inciso o per campire ampie zone della raffigurazione nelle quali la superficie era resa scabra da un fitto tratteggio e lievemente abbassata.

Purtroppo le lastrine di rivestimento dell’Antiquarium non hanno conservato il colore ed hanno perso così il vivace e prezioso effetto che le tinte contrastanti dovevano creare sulla superficie di fondo bianca e riflettente. Esse costituiscono però una preziosa testimonianza dal momento che a Roma oggetti simili sono piuttosto rari. Inoltre un gruppo, abbastanza numeroso, è stato rinvenuto insieme in un ambiente del quale si è potuto individuare il carattere, dal momento che faceva parte di un edificio termale, sito subito fuori l’antica Porta Viminale (via Marsala).

Le lastrine sono decorate con motivi diversi, geometrici, floreali o figurati (M. Albertoni, in bibl.).

Gli eroti ammantati che campeggiano in quelle esposte, le più integre del gruppo, recano cesti di rose, un bacino per l’acqua, un cofanetto per gioielli di forma analoga a quello che le lastrine stesse dovevano rivestire; l’acqua, le rose, i gioielli, come sappiamo da tante raffigurazioni dell’episodio, evidentemente molto amato, servivano ad Afrodite, impegnata nella sua toletta.

Le stesse cose dovevano servire anche alla “signora” romana dopo le abluzioni nelle terme: ad essa era diretto il lusinghiero paragone con la dea della Bellezza insito nel tema decorativo descritto.

Un’altra lastrina (n. 370), acquistata sul mercato antiquario, mostra invece una graziosa figura femminile con un rotulo in mano: vi si deve presumibilmente vedere la sposa alla quale i cofanetti erano destinati come dono nuziale.

Con analoga tecnica ad incisione e con stile non molto dissimile è decorata la situla in bronzo acquistata sul mercato antiquario (n. 376; A. Carandini in bibl.). Questo particolare tipo di contenitore, utilizzato per mescolare il vino, faceva parte del classico servizio da tavola, sostituito a volte da crateri o da più piccoli secchielli. Se ne conoscono splendidi esemplari riccamente decorati anche in argento ed in vetro.

La situla dell’Antiquarium, in bronzo, caratterizzata da costolature orizzontali, manca dell’ansa e di parte del corpo. Il pregio artistico è dato dalla graziosa decorazione incisa raffigurante scene paesistiche di tiaso marino e di pesca.

Il tiaso marino si snoda nel registro superiore con eroti e nereidi su mostri marini, mentre le scene di pesca, nelle quali compaiono in primo piano pesci di varie specie, coccodrilli, anatre, insieme a pescatori e prospetti di ville porticate affacciate sull’acqua, occupano il registro mediano e quello inferiore. Lo stile, puramente disegnativo e privo di rilievo, nel quale spiccano stereotipe caratterizzazioni prive di vivacità naturalistica (gli occhi grandi e tondi con sopracciglia arcuate, i nasi espressi con una semplice “L” al centro del volto, i pesci graziosi ma ripetitivi nei particolari descrittivi), avvicina quest’opera ai cofanetti d’osso colorati, più o meno coevi, anche se probabilmente essa fu eseguita nelle province occidentali del Mediterraneo meridionale (metà IV sec. d. C.).

BIBLIOGRAFIA:

P.E. Visconti, Illustrazione di un antico pupillare in avorio, in “BullComm” II, 1874, pp. 101-115. M. Albertoni, Lastrine di rivestimento dall’antica via di Porta S. Lorenzo, in “BullCom”, 1992 in corso di stampa. A. Carandini, La situla tardo-antica dell’Antiquarium Comunale, in “BullCom” LXXLX, 1963-64, pp. 147-163.

Fibule Gote [P. 186]

(Carla Salvetti)

Rinvenute nell’area adiacente al cimitero di S. Valentino sulla via Flaminia, all’interno di una sepoltura e posizionate all’altezza della cintura del defunto, le due fibule hanno forma di aquila e sono in posizione speculare, in modo tale da potersi agganciare (nn. 377-378). Sono costituite da una lamina d’oro rivestita d’argento sulla quale sono applicate laminette d’oro a formare alveoli entro cui si dispongono granate rosse, secondo la tecnica del cloisonnée. L’occhio del rapace è costituito da una semisfera di cristallo di rocca, con foro centrale per la granata incastonata in oro. Il rinvenimento di questa sepoltura lungo la via Flaminia va messo in relazione con la presenza a Roma dei Goti di Teodorico: il tipo di fibbia infatti è diffuso soltanto tra gli Ostrogoti ed i Visigoti e circoscritto ad un ambito cronologico piuttosto puntuale, tra il tardo V secolo ed il VI (Bierbrauer 1984, pp. 449 ss.). L’aquila, a cui viene associato un effetto apotropaico, è l’unico motivo zoomorfo presente nell’arte ostrogota mutuato dalle popolazioni danubiane (Bierbrauer 1974). L’importanza del rinvenimento è quindi non soltanto nel pregio degli oggetti, di squisita fattura, ma soprattutto nella puntuale documentazione che offrono per un periodo di cui sono scarse le testimonianze monumentali a Roma e, più in generale nel mondo mediterraneo.

BIBLIOGRAFIA

de Rossi 1894, pp. 158 ss.; Ori 1961, p. 242, n. 842

Forma Urbis Romae [P. 187]

(Laura Ferrea)

Nel 1562 furono ritrovati dietro la chiesa dei SS. Cosma e Damiano centinaia di frammenti di una grande pianta di Roma incisa su lastre di marmo, eseguita in età severiana (e più precisamente tra il 205 e il 208 d. C., come si può dedurre da alcune iscrizioni presenti su di essa). La parete ai piedi della quale furono rinvenuti i pezzi era quella a cui la pianta era affissa in antico, in un’aula del Foro della Pace.

All’inizio la scoperta destò grande interesse e i marmi, acquisiti dai Francesi e sistemati a Palazzo Farnese, furono oggetto di studio e accuratamente disegnati (la maggior parte dei disegni è raccolta nel Cod. Vat. Lat. 3439).

Dopo qualche tempo però un certo numero di essi fu utilizzato per la costruzione di muri nel “Giardino Segreto” dei Farnese sul Tevere; di questi solo una parte è stata in seguito recuperata. Altri rinvenimenti hanno avuto luogo nel corso di vari scavi tra il 1813 e il 1956.

La pianta era originariamente costituita da 11 filari di grandi lastre di marmo proconnesio, disposte alternativamente in orizzontale e in verticale, per un totale di 151 lastre, fissate alla parete con grappe metalliche, di cui resta ancora traccia.

Le sue dimensioni erano notevoli: era alta circa 13 metri e larga 18,10, per una estensione complessiva di 235 mq.

Vi erano riprodotti con molta accuratezza, probabilmente sulla base di piante catastali, tutti gli edifici pubblici e privati della città in scala 1:240 circa. La parte della città rappresentata coincideva con il pomerio di Roma in età severiana, con al centro il Campidoglio.

La Forma Urbis marmorea è un documento di fondamentale importanza per lo studio della topografia di Roma antica.

Fornisce infatti elementi utili per la conoscenza dell’urbanistica della città in età severiana ed ha contribuito al chiarimento di complessi problemi topografici; il rilevamento preciso di tutti gli edifici consente inoltre di ricostruirne l’esatta fisionomia.

Della pianta marmorea severiana resta un migliaio di frammenti, molti dei quali di piccole dimensioni, che rappresentano circa 1/12 dell’intera superficie (della quale conosciamo però 1/10, aggiungendo a quelli in nostro possesso anche i frammenti noti da disegni).

E’ stata identificata topograficamente ed è quindi ricollocabile in pianta circa la metà dei pezzi.

I frammenti della Forma Urbis furono esposti per la prima volta nel 1742 in Campidoglio, lungo le scale del Museo Capitolino; si composero 20 riquadri con i frammenti originali e le copie in marmo dei pezzi perduti.

Nel 1903 venne realizzata una ricomposizione globale della pianta sulla parete di fondo del Giardino Romano nel Palazzo dei Conservatori, inserendo i pezzi con topografia individuata su una pianta schematica di Roma antica disegnata sulla parete.

In seguito, nel 1924, fu necessario sostituire con copie i pezzi originali, che l’esposizione all’aperto rischiava di danneggiare e tutti i frammenti della Forma Urbis vennero trasferiti al Celio dove, in occasione dell’apertura dell’Antiquarium Comunale, nel 1929 furono esposti in una sala ad essi dedicata. Dopo la chiusura del Museo del Celio, nel 1939, furono di nuovo portati in Campidoglio a Palazzo Caffarelli; dal 1955 sono conservati a Palazzo Braschi, in un magazzino non aperto al pubblico.

Si presenta in questa sede uno dei frammenti più estesamente conservati, il n. 24 c (n. 418) (alt. cm. 110; largh. cm. 60) .

La lastra a cui apparteneva doveva misurare cm. 175 x 84.5 ed era stata ritrovata quasi per intero nel 1562, ma in seguito un grosso pezzo della parte superiore è andato perduto (lo conosciamo però da un disegno del Cod. Vat. Lat. 3439).

Erroneamente ubicata fino a tempi piuttosto recenti nell’area settentrionale del Campo Marzio, raffigura invece una zona dell’attuale quartiere Testaccio, comprendente edifici di tipo commerciale (Porticus Aemilia ed Horrea Galbana) per l’immagazzinaggio delle merci che arrivavano al porto fluviale, l’Emporium. Gli scavi nella zona hanno confermato l’esattezza delle indicazioni della pianta.

Il frammento esposto conserva sulla destra parte del margine originario della lastra; in alcuni punti resta ancora traccia del colore rosso che sottolineava gli elementi incisi, facendoli risaltare sullo sfondo bianco del marmo.

BIBLIOGRAFIA

Colini 1929, p. 27 ss;. Carettoni, Colini, Cozza, Gatti 1960; Rodriguez Almeida 1981.

Gli Elementi Idraulici [P. 189]

(Emilia Talamo)

Un’intera sala dell’Antiquarium era dedicata ad illustrare le tecniche idrauliche antiche e la legislazione relativa alle modalità di distribuzione dell’acqua alle utenze pubbliche e private.

Vi trovavano posto condotti costituiti da blocchi di tufo forati al centro riferibili allo speco sotterraneo rinvenuto nelle vicinanze della chiesa di S. Stefano Rotondo (“BullCom” 1986, pp. 400, 406), i cippi dell’Anio Vetvs, dell’Aqua Marcia, Tepvla e Ivlia, chiavi regolatrici per l’erogazione dell’acqua realizzate in bronzo (n. 364), boccagli di fontana a testa di animale. Splendido è l’esemplare a testa di pantera (n. 360), che decorava il ninfeo a nicchie ornate da statue di una ricca domvs tardo antica venuta alla luce lungo via G. Lanza (Talamo in bibl., p. 166 ss., n. 7; Guidobaldi 1986, pp. 194-198, fig. 31) e di notevole interesse risultano anche i piccoli boccagli a protome ferina scoperti presso la chiesa di S. Martino ai Monti insieme ad altri materiali in bronzo costituenti una sorta di tesoretto (nn. 361-363) (Talamo in bibl., p. 169 s., nn. 8-10).

Ma la testimonianza di maggiore importanza è costituita dalla vastissima collezione di tubature in piombo (fistulae) provenienti da scavi nell’area urbana; le iscrizioni a rilievo conservano l’indicazione del proprietario al quale viene concesso il beneficio dell’erogazione dell’acqua da parte dell’imperatore, del procvrator aquarvm, il magistrato che ha ordinato la messa in opera della condotta, e dell’officina (il plumbarivs) che ha realizzato i tubi. Grazie a queste preziose notazioni è possibile ampliare ulteriormente la ricerca sulla topografia antica della città rivolgendo una particolare attenzione ai quartieri ricchi e signorili o alle residenze private imperiali, ma è possibile anche prendere in esame i problemi connessi alla gestione amministrativa e alla organizzazione delle officine che operano su vasta scala in modo da poter soddisfare le esigenze delle domvs e dei più importanti poli delle attività pubbliche.

Un settore espositivo di notevole riguardo era costituito da meccanismi relativi alla tecnica idraulica come un raro esemplare di pompa aspirante e premente (T. Schiler in Trionfo dell’acqua 1986, p. 159 s. fig. 9; E. Talamo, C. Usai, in “BollMusComRoma” I, n.s., 1987, pp. 117-122) che, visto l’alto getto di acqua determinato dal suo funzionamento, era utilizzata per spegnere gli incendi.

A questa va aggiunta una serie di contenitori in bronzo funzionali al riscaldamento degli ambienti termali; sono i dracones o miliaria (Seneca, Quaest. Nat. III, 24), o ahena (Vitruvio V, 11 (10), 1) o testudo, a seconda della forma, le caldaie che venivano alloggiate nella muratura sopra il focolare dei praefurnia. In questi ambienti sotterranei veniva scaldata l’acqua condotta poi, attraverso uno stretto canale, al calidarium delle terme (per la tecnica ed il sistema di riscaldamento cfr. l’impianto della villa della Pisanella a Boscoreale v. da ultimo Broise-Scheid 1987, pp. 97 ss.). Ci è conservato una testudo proveniente dalla zona degli horti Lamiani sull’Esquilino e una grossa caldaia circolare rinvenuta presso la chiesa di S. Cecilia a Trastevere (Talamo in bibl., p. 165 ss, fig. 1.). Non diversa doveva essere la funzione di un grande contenitore in bronzo scoperto in un’area limitrofa alle terme di via Ariosto sull’Esquilino (n. 359) (proposta di delibera Consiglio Comunale di Roma n. 174 del 11/7/1887; Fusch 1910, p. 91, figg. 74-75; Debgomont 1984, pp. 78 ss.). La presenza di considerevoli e tenaci strati di stucco sulla parte posteriore della vasca esclude però che si tratti di una caldaia vera e propria da sovrapporre al focolare (d’altronde sono assenti tracce di ossidazioni da fuoco), mentre sembra probabile ipotizzarne la funzione come copertura dell’ambiente sotterraneo surriscaldato in modo da poter conservare il calore il più a lungo possibile. La vasca è costituita da 18 lastre rettangolari fuse separatamente con il sistema della fusione “a staffa” (8 per la cornice esterna, 4 per i lati, 2 per il fondo, 4 per il telaio posteriore). Le lastre sono poi state montate e fissate tra loro con ribattini in rame; le fessure rimaste dopo la congiunzione delle lastre sono state sigillate con un sottile strato di piombo o stagno secondo una tecnica paragonabile alla “stagnatura”.

BIBLIOGRAFIA

E. Talamo, Materiali relativi ad alcuni impianti idraulici antichi provenienti da Roma, in Il Trionfo dell’acqua 1986, pp. 165-170.

Mosaici [P. 190]

(Carla Salvetti)

Durante gli scavi di fine ‘800 furono ritrovati a Roma numerosi pavimenti a mosaico, più o meno integri, che distaccati, dalle sedi originarie e tagliati molto spesso in pannelli, furono depositati nei magazzini comunali. L’ampiezza degli scavi ottocenteschi, la diversa destinazione d’uso delle strutture che venivano rimesse in luce e la loro diversa cronologia, consentirono di recuperare materiale assai eterogeneo che oggi, nonostante risulti in molti casi decontestualizzato, consente di analizzare alcune fasi artistiche di Roma antica e in modo particolare un aspetto artigianale rimasto in qualche modo ai margini. Nelle collezioni dell’Antiquarium la decorazione musiva copre un arco di tempo assai vasto che va dal II secolo a. C al IV d. C. e comprende tanto la decorazione pavimentale quanto quella parietale con reperti di straordinario interesse.

Il bellissimo mosaico con la rappresentazione della lotta tra il polipo e l’aragosta tra varie specie di pesci che nuotano nel mare fu trovato nel 1888 nell’orto di S. Lorenzo in Panisperna, durante i lavori per il prolungamento di via Balbo (n. 420). Stando alle relazioni di scavo il mosaico, molto frammentario, pavimentava una camera di circa 14 mq., presumibilmente una piscina “dovendo, come sembra, la stanza empirsi d’acqua pel bagno, fino ad una certa altezza, poiché le pareti erano intonacate di calcestruzzo”; faceva da cornice alla raffigurazione centrale il fregio a girali d’acanto entro cui sono raffigurate varie specie di uccelli e di insetti.

La straordinaria varietà di forme e colori, la vivace resa del mondo sottomarino popolato dalle più svariate specie del Mediterraneo, l’uso raffinatissimo delle tessere di dimensioni minute, consentono di collocare questo mosaico nella produzione della fine del II-inizi I secolo a.C., accanto ai due più famosi emblemata della casa del Fauno di Pompei, al Museo Nazionale di Napoli (Meyboom 1977, pp. 49 ss.), in cui ugualmente compaiono varie specie ittiche. Al di là di una particolare ricerca per l’identificazione dei singoli pesci e delle diverse tesi sulla provenienza del cartone, il mosaico capitolino si impone per la squisita fattura non solo del pannello centrale ma anche della cornice che suggerisce una derivazione da decorazioni in metallo.

Anche l’emblata con il leone legato dagli eroti (n. 421), è stato datato al I secolo a.C. sulla base di considerazioni stilistiche e per il confronto con due pannelli analoghi, uno dalla casa del Centauro di Pompei al Museo Nazionale di Napoli (Pernice 1938, p. 161, tav. 60) e il secondo al British Museum di Londra (Hinks 1933, p. 65, n. 1, tav. 25). Il quadro doveva essere collocato al centro di una più vasta superficie musiva, in una delle tante ville romane che sorgevano ad Anzio nell’ultimo periodo della Repubblica: fu infatti scoperto nella Selva Pamphilj a Porto d’Anzio nel 1749. Successivi e massicci interventi di restauro hanno notevolmente alterato il mosaico, fino a trasformare in un Ercole l’originaria figura di Dioniso, secondo un modello pittorico che doveva rappresentare gli amorini che ammansiscono il leone davanti al santuario campestre del dio. La sostituzione con Ercole in atto di filare con la conocchia ed il fuso sembra dovuta ad un restauro del ‘700, in cui erano stati messi in relazione gli amorini che assoggettano la fiera all’eroe assoggettato alla regina di Lidia, Onfale.

Nel 1876 nei pressi dell’Auditorium di Mecenate si rinvenne l’emblema con la rappresentazione di un episodio del mito di Oreste e Ifigenia, riutilizzato insieme ad altri due pannelli simili, come copertura di una fogna (n. 422). L’allettamento delle tessere, in marmo e paste vitree, in una malta di calce e polvere di marmo su una lastra di terracotta, suggerisce che il pannello potesse costituire uno dei quadri collocati all’interno di un più vasto sistema musivo.

Le due figure, Oreste seduto in nudità eroica, Ifigenia con l’abito sacerdotale e con il simulacro di Artemide nella destra, stante di fronte a lui, ripropongono il momento dell’incontro tra i due fratelli, episodio caro alla drammaturgia antica. Il riconoscimento avviene, grazie ad una lettera, nel momento in cui Oreste ed il suo amico Pilade stanno per subire il sacrificio per aver rapito il simulacro di Artemide nel santuario della dea in Tauride, dove Ifigenia è sacerdotessa.

Nel mosaico degli horti mecenaziani le due figure si impongono all’attenzione per una impostazione scenica di grande pathos, sottolineata dalla posizione antitetica, dallo sfondo a due colori contrastanti, dalla ricerca preziosistica di forme e di sfumature affidata ad una utilizzazione molto raffinata del materiale, che contrasta nettamente con alcune parti restaurate già anticamente.

Nella vastissima produzione musiva di epoca imperiale a Roma, una parte notevole è costituita da mosaici monocromi, per lo più a disegno geometrico, a volte figurati, come nel caso del pannello a fondo bianco con la rappresentazione di Europa sul toro (n. 423). Recentemente restaurato il mosaico si propone come un prodotto di serie elaborato da un’officina romana e redatto verosimilmente sulla base di quei cartoni o album di schizzi, contenenti svariate redazioni di ogni soggetto, mitologico o no, da cui prendevano spunto decoratori, mosaicisti, pittori. Alla sintetica elaborazione del soggetto si accompagna in questo mosaico una estrema semplificazione dei caratteri stilistici, ove con semplici ricorsi di tessere bianche sul tessuto nero dell’immagine, si creano rapidi accenni ai dettagli delle figure.

Se è vero che la qualità di questo artigianato varia piuttosto secondo la finezza del lavoro e l’importanza delle parti rappresentate che non secondo l’età, tuttavia è anche da notare che la grossezza delle tessere tende ad aumentare mentre il disegno si semplifica nella produzione più tarda. Alla metà del III secolo d. C. si possono allora assegnare i due quadri a mosaico policromo, uno con il busto di un atleta, proveniente dalle Terme Eleniane (S. Croce in Gerusalemme, n. 424), l’altro con una testa di Stagione, l’Estate, dalla zona di S. Vito sull’Esquilino (n. 425). Il busto maschile, di notevoli proporzioni e inserito in un riquadro delimitato da una fascia a dentelli e da una treccia, rappresenta con grande vivacità le fattezze di un atleta o di un lottatore, tema piuttosto diffuso per tutto il III secolo, come nel celebre mosaico dalle Terme di Caracalla ai Musei Vaticani (da ultimo: Pratesi 1989, pp. 5 ss.).

Anche la testa femminile, coronata di spighe e quindi identificata come l’Estate, doveva far parte di un pavimento di grandi dimensioni, in cui erano presenti le allegorie delle stagioni. Questo motivo, ampiamente diffuso anche nei secoli successivi (per un elenco cfr. Hanfmann 1951, pp. 185 ss.), è reso qui in forma piuttosto sintetica, con qualche incertezza nel disegno, poche varianti di colore e soprattutto tessere piuttosto grandi di taglio irregolare.

“Pulsa deinde ex humo pavimenta in camaras transiere vitro. At Romae novicium et hoc inventum” (Nat. hist., XXXVI, 189). L’uso del mosaico per decorare pareti e volte, impiegando di preferenza le più leggere e aderenti tessere in paste vitree, che Plinio definisce un’innovazione prossima ai suoi tempi e certamente nata a Roma, ha, nel mosaico con rappresentazione della nave che salpa dal porto, uno dei momenti più significativi (n. 426). La natura stessa di questo tipo di decorazione infatti ha consentito la conservazione di ben pochi documenti, limitati per lo più a frammenti parietali e impronte dell’allettamento delle tessere. Il pannello, notevole per dimensioni e stato di conservazione, rappresenta sulla sinistra le strutture portuali con la banchina, il molo e il faro a tre piani sovrapposti che si restringono sulla sommità dove è collocata una statua identificabile con il simulacro del dio Nettuno. Sulla destra la parte poppiera di una nave mercantile o da diporto, alle cui manovre presiedono cinque marinai. Non sono trascurati particolari e dettagli dell’imbarcazione e anche le silhouettes dei marinai sono individuate con un tocco impressionistico che non trascura però di sottolineare la carnagione scura degli uomini ed il loro frenetico affaccendarsi. Le circostanze del ritrovamento, in occasione dei lavori per l’apertura di via Nazionale, nella proprietà Rospigliosi Pallavicini, rivelano che il mosaico era ancora in situ, a decorare la parete di un criptoportico che doveva collegare parti diverse di una grande proprietà. Notevoli risultano l’estensione delle strutture e la ricchezza del partito decorativo che alternava quadri in mosaico di minori dimensioni al centro di pareti trattate a pomice e stucco, a fontanine a scaletta da cui scendeva l’acqua, a semicolonne in stucco e mosaico. Il fulcro di questo impianto era evidentemente costituito dal mosaico con la nave in cui l’uso delle tessere a pasta vitrea, oltre a sfruttare una gamma cromatica pressoché inesauribile, risolveva in parte una situazione di penombra con la lucentezza ed il tono brillante della decorazione. Lo schema decorativo del pannello, che non trova confronti puntuali con altri mosaici per la ricchezza dei dettagli e per la sensibilità cromatica nella costruzione dell’immagine, fa supporre l’intervento di un valente artigiano e una precisa scelta del committente.

BIBLIOGRAFIA

Stuart Jones 1926, Gall. Sup. I, pp. 270 ss., nn. 3, 4, 6, 7, 12, 18, 23, tavv. 108-109-110 (n. 420); pp. 271 s., n. 5, tav. 107 (n. 421); pp. 273-274 n. 10, tav. 108 (n. 422); pp. 273 n. 9, tav. 108 (n. 424); pp. 274, n. 11, tav. 108 (n. 425); pp. 268-270, n. 1, tav. 107 (n. 426); Gullini 1956, pp. 20-21, tav. VI, 1-3 (n. 420); Antium 1975, pp. 71 ss., n. 57 (n. 421); Bevilacqua 1978-79, pp. 39 ss. (n. 422); Blake 1940, p. 109 (n. 425); p. 112 (n. 424); Quet 1984, pp. 810 ss. (n. 426)

Contesti Funerari della prima Età Imperiale dall’Esquilino [P. 192]

(Emilia Talamo)

Durante i lavori ottocenteschi per la sistemazione di piazza Vittorio sull’Esquilino vennero alla luce, lungo la via Labicana antica, due tombe di età augustea che costituiscono un’importante testimonianza per la diffusione a Roma di preziosi apparati decorativi ellenizzanti nell’ambito del mondo funerario.

La prima tomba conteneva un’urna di granito rosa di Assuan con le ceneri di Napes, liberta di Antonia Minore, come ci attesta l’iscrizione che corre sul corpo del vaso (n. 443); l’altra racchiudeva un cinerario in alabastro (n. 442) rivestito da una fodera di piombo e inserito in un grosso dolio di terracotta.

L’impianto monumentale dell’una e dell’altra deposizione ci è noto in maniera estremamente frammentaria, vista la rapidità con la quale vennero eseguiti e documentati i lavori di scavo. Erano forse inserite in unico monumento non lontano e forse non diverso dalla c. d. Casa Tonda, o piuttosto custodite all’interno di un recinto funerario, dove si svolgeva anche il rito della cremazione. E’ certo comunque che in questa zona dove, a partire dalla tarda età repubblicana, si attua una radicale opera di risanamento e di trasformazione urbanistica grazie a Mecenate, alcune aree sono ancora riservate all’edilizia funeraria di tipo monumentale come ci attestano le fonti e alcune testimonianze archeologiche.

Entrambe le urne sono realizzate con pregiati marmi provenienti dalle cave egiziane ed anche l’eleganza e la sobria linearità della forma ripropongono modelli derivanti dallo stesso ambiente artistico. D’altronde i fitti rapporti con Alessandria nella tarda età repubblicana portarono all’introduzione a Roma di vasi canonici depredati da antiche tombe egiziane e riutilizzati da illustri cittadini romani. Materiali “esotici” e particolarmente pregiati per la loro rarità vengono quindi richiesti con sempre crescente interesse dalla ricca committenza romana che ama circondarsi dello sfarzo e del fastoso apparato decorativo proprio dei potenti personaggi greci ed orientali (per la riutilizzazione di vasi egiziani a Roma e per la diffusione delle urne in alabastro cfr. da ultimo Talamo in bibl., pp. 24-25, note 68-75; ai materiali ivi citati vanno aggiunti uno splendido cinerario da Campo Verano, Mus. Cap. n. 191, e due di forma quasi identica provenienti l’uno dall’Esquilino e l’altro di recente acquisizione, Mus. Cap. nn. 2354, 3535).

Allo stesso orizzonte culturale ci riporta anche la preziosa testimonianza archeologica rinvenuta all’interno dell’urna di alabastro: i rivestimenti in osso di un letto bruciato insieme al defunto durante la cremazione. Ad imitazione dei lussuosi letti da parata che comparivano nei banchetti, nelle pompose processioni, nelle cerimonie religiose e funebri dei sovrani ellenistici si diffonde a Roma questo elaborato tipo di mobile realizzato in legno pregiato con incrostazioni eseguite in oro, avorio, bronzo, tartaruga o alabastro.

Il letto viene, quindi, a rappresentare per la sua elegante e ricercata decorazione l’esaltazione del defunto e la migliore espressione del suo rango sociale.

Nel corteo funebre il defunto era trasportato sul letto, poi deposto sulla pira e quindi bruciato; le sue ossa e i frammenti del letto superstiti al rogo erano poi conservati nell’urna cineraria.

Di questo prezioso arredo sono sopravvissuti solo i frammenti dei rivestimenti in osso, calcinati e deformati dal fuoco; nulla è rimasto ovviamente dell’intelaiatura in legno e degli elementi portanti in ferro.

Le zampe, ricostruibili per un’altezza di ca. cm. 36, erano costituite da un elemento portante in ferro sul quale si inserivano torniture in legno rivestite dalle placchette in osso. Ad elementi decorativi di tipo vegetale si alternano motivi figurati ora più schematici (amorini che intrecciano ghirlande e sacrificano un cinghiale, gruppo di Amore e Psyche) ora più complessi ed elaborati come per la scena con thiasos dionisiaco infantile coronata dalla splendida sequenza con l’infanzia di Dioniso tra una Ninfa ed un Satiro.

Sul telaio si snoda una lussureggiante composizione a girali di acanto incorniciata da kymatia a foglie lisce e chiusa agli angoli da un Amorino alato che porta gli attributi di Hermes. Su entrambi i lati del telaio erano imperniate le spalliere (fulcra) decorate con Amorini e cani che cacciano un cinghiale.

La raffinatezza di esecuzione, ora ad intaglio ora ad altorilievo, la forma slanciata ed articolata delle zampe e la scelta dei temi decorativi trovano origine in ambiente greco e più precisamente alessandrino. Un ruolo di fondamentale importanza è conferito alla figura infantile come simbolo di rinnovamento della vita ed espressione del ciclo delle generazioni divine secondo una concezione ellenistica di origine alessandrina; ma il protagonista di tutte le scene compresa anche quella principale, che compare a metà delle zampe, è Dioniso, la divinità più celebrata dalla dinastia dei Tolomei che vedono nel dio l’origine della loro stirpe. Un rinnovato impulso al culto dionisiaco è inoltre alimentato dalla politica di Cleopatra e di Antonio che si definisce “neos Dionysos” all’indomani delle vittorie sugli Armeni.

E’ plausibile, quindi, supporre una origine greca o molto più probabilmente alessandrina per questo manufatto che rientra in una classe ben documentata in ambito funerario; d’altronde greche sono le lettere che compaiono sulle placchette dei letti di Aosta, Corinto e Boston (Vermeule 1989, pp. 271-286) che dovevano servire da guida all’artigiano per il montaggio sull’intelaiatura di legno.

BIBLIOGRAFIA

“BullCom” 1874, pp. 261-262, n. 46; Colini 1929, p. 67; E. Talamo, Un letto funerario dall’Esquilino, in “BullCom” XCII, 1, 1987-88, n.s. I, pp. 17-136.

Urna Cineraria dalla Via Ostiense [P. 195]

(Maddalena Cima)

Durante i lavori per il tracciato della autostrada Roma-Ostia, nel 1928, in località Ponte Fratta, fu rinvenuta un’urna cineraria marmorea con coperchio ancora perfettamente sigillato. Al momento dell’apertura l’urna risultò riempita con un materiale resinoso che profumava intensamente di canfora e che, a contatto dell’aria, si seccò rapidamente. La presenza di questa sostanza, la cui natura allora non fu purtroppo analizzata, insieme alla tenuta del coperchio che impedì l’ingresso dell’aria, consentirono la quasi perfetta conservazione di un panno di lino, che era servito a contenere le ceneri del defunto. Proprio queste particolari circostanze, non facilmente verificabili, fanno di questo ritrovamento un evento quasi eccezionale, dal momento che non si conoscono a Roma altri esempi di tessuti così ben conservati.

L’urna, (n. 444) in marmo greco, si presenta come un vaso di semiovoidale, con spalla sottolineata da una scanalatura e corpo decorato da strigliature ondulate. Due anse ritorte collegano la spalla alla bocca del vaso. Il coperchio, che sappiamo essere stato ritrovato nello scavo, non è attualmente reperibile. La forma del vaso e la sua decorazione permettono una datazione nell’ambito della I metà del I sec. d. C., in base a confronti con esemplari analoghi conservati nei Musei Vaticani (Lippold 1956, n. 15, tav. 79; n. 27, tav. 131; n. 32, tav. 136; n. 3, tav. 173) ed al Museo delle Terme (Mus. Naz. Rom. I, 1, n 155, p. 248: F. Taglietti).

Ma l’elemento più interessante del corredo funerario è rappresentato, come si accennava, dal grande tessuto di lino (largh. cm. 71,5; lungh. cm 186, n. 441) terminante con frange sui lati corti e straordinariamente simile agli asciugamani ancora in uso. In realtà, la particolare sostanza nel quale fu trovato immerso ha avuto l’effetto prodigioso di mantenere al tessuto non solo l’originario aspetto esteriore ma anche la primitiva consistenza ed elasticità. Il tessuto appare costituito da un ordito a tela semplice, sul quale è lavorata una trama molto rada ed irregolare con un rapporto di 21-22 orditi per 21-22 trame per centimetro quadrato; i lati lunghi sono orlati con vivagni, mentre sui lati brevi il tessuto termina con una striscia priva di trama, seguita da una frangia. Vicino ad un’estremità è stato inserito, durante la tessitura, un filo di lana rossa per la lunghezza di 25 centimetri.

Gli unici esemplari che presentano elementi comuni col tessuto dell’Antiquarium sono alcuni frammenti di stoffe conservati nei Musei Vaticani e provenienti dal Sancta Sanctorum della Basilica Lateranense (W. F. Volbach, I tessuti del Museo Sacro Vaticano, Città del Vaticano 1942, pp. 16 ss.). Tali pezzi di stoffa, conservati per secoli dalla pietà religiosa, erano considerati come preziose reliquie bagnate del sangue dei martiri.

L’uso più comune di “asciugamani” di questo tipo era certamente legato alla vita domestica (mantele è il termine latino che indica la salvietta che serviva ad asciugarsi le mani dopo il pasto e che durante i banchetti veniva tenuta intorno al collo) e nei riti religiosi (cfr. quello in tessuto operato che compare su un rilievo dell’Ara Pacis rappresentante Enea che sacrifica ai Penati: E. La Rocca, Ara Pacis Augustae, Roma 1983, figg. a p. 41 e 42).

La stoffa che qui viene esposta doveva essere invece strettamente legata al rito funebre della cremazione, proprio in considerazione delle circostanze del ritrovamento. Dalle fonti antiche conosciamo le varie fasi attraverso le quali si svolgeva la cerimonia dell’incinerazione dei defunti: dopo l’estinzione delle fiamme del rogo, le ceneri venivano raccolte dai parenti in un panno (ossilegium) e quindi deposte all’interno dell’urna. In alcuni casi, per facilitare la separazione delle ceneri del defunto da quelle del rogo, si avvolgeva il corpo in un lenzuolo di amianto (Varr., Ling. Lat. V, 131; Plin., NH XIX, 2, 19).

Una toccante elegia di Tibullo (III, II, vv. 15 ss.), riveste di forma poetica questo evento così drammatico: “Dopo avere invocato i miei Mani ed indirizzato una preghiera alla mia anima, dopo aver bagnato le loro mani nell’acqua per purificarle, la sola parte che resterà del mio corpo, le mie ossa imbianchite, le raccoglieranno nelle pieghe delle loro vesti nere, e cominceranno a spandere su di loro, una volta raccolte, un vino vecchio di anni; dopo le aspergeranno con un latte bianco come la neve, poi le raccoglieranno con un panno di lino finissimo e le depositeranno, una volta asciutte, nella dimora di marmo”.

BIBLIOGRAFIA

A.M. Colini-R.N. Soler Vilabella, in “BullCom.”, LXV, 1937, pp. 73-82

Urna funeraria [P. 196]

(Carla Salvetti)

A pianta rettangolare l’urna poggia su quattro peducci e presenta tutte le facce decorate con motivi vegetali inquadrati da una modanatura liscia (n. 445). Il coperchio, a forma di tetto a doppio spiovente in cui sono evidenziate le tegole, risulta decorato nei frontoncini laterali, da uno scudo e quattro lance incrociate; esso era fissato alla cassa mediante grosse grappe di piombo. Sui lati dell’urna si sviluppa una decorazione a tralci d’acanto che nascono da un cespo centrale: i tralci si articolano in girali che coprono tutto il corpo del pannello, chiusi da fiori in boccio o completamente aperti. Nella vegetazione e tra le foglie sono raffigurati uccellini, un’ape, una chiocciola, una rana. Il delicato disegno degli elementi vegetali e la varietà dei piccoli animali, creano un piacevolissimo effetto di movimento e tendono alla ricerca di un pieno naturalismo nel dettaglio, che si accompagna però ad un effetto d’insieme piuttosto freddo. La struttura della composizione organizzata nei minimi particolari, l’esuberanza un po’ formale dei tralci, l’estrema padronanza del repertorio figurativo da parte dell’artigiano che inserisce uccelli e insetti con grande varietà di combinazioni, suggeriscono la ricezione di motivi propri dell’arte augustea ed esemplificati dall’Ara Pacis. Poco diffuso appare invece il motivo delle armi che può essere messo in relazione, a livello di simbologia funeraria, alla divinizzazione del defunto per mezzo del suo valore eroico.

BIBLIOGRAFIA

Sinn 1987, pp. 63, 95, n. 18, tav. 8 b, d con bibl. precedente.

Ritratto maschile [P. 196]

(Barbara Pettinau)

La testa (h. cm. 38,5), (n. 446), ritrovata nei pressi della Basilica di San Paolo fuori le Mura, doveva probabilmente essere inserita in una statua togata, come dimostra il taglio semilunato del collo.

Il ritratto rappresenta un uomo in età matura; l’impostazione del volto è caratterizzata da lineamenti decisi: fronte ampia e spaziosa, segnata da due profonde rughe di cui una, quella inferiore, esaspera le arcate sopraccigliari, occhi infossati, a loro volta sottolineati agli angoli da piccole rughe, bocca con labbra carnose, mento forte e prominente. Alla solidità del volto si accompagna la robusta struttura del cranio esaltata dalla compatta calotta di corti capelli resi a fitte scalpellature.

I tratti del personaggio sono nobilitati da una austera serenità di stampo classicheggiante che stempera il realismo dei lineamenti. L’idealizzazione dell’immagine, che pure conserva compiaciuti elementi veristici, si rivela nell’attenzione posta nel mitigare crudezze eccessive nel tratteggio degli elementi fisionomici, nello sfumato sapiente dei piani facciali che non solo evita incongruenze palesi nella struttura del volto ma anzi ne regolarizza piacevolmente la costruzione.

Il personaggio rappresentato propone così, senza perdere l’identità fisionomica, anche un suo nobile ritratto morale, ricco di virtù romane, di cui il volto, grave e raccolto, è lo specchio. La testa sembra quindi rientrare nella temperie culturale della tarda repubblica dove le tendenze profondamente realistiche proprie del ritratto romano repubblicano si fondono, piegandole alle esigenze del tormentato periodo di passaggio dalla repubblica al principato augusteo, con quelle derivate dal contatto con le esperienze culturali del mondo ellenistico.

La datazione proposta da Mustilli (Mustilli 1939) alla fine dell’età repubblicana viene ripresa da Vessberg (Vessberg 1941, p. 231) che data la testa intorno al 40 a. C.. Diversamente H. von Heintze la ritiene una copia di età flavia di un ritratto repubblicano, citando il caso del ritratto cd. di Mario, conservato a Monaco, in cui bisogna riconoscere la replica, variamente datata nell’ambito dei primi due secoli dell’impero (cfr. per il problema delle repliche: Schweitzer 1948, pp. 34 ss.), di un’opera repubblicana della I metà del I secolo a. C.. Tale ipotesi potrebbe essere confortata dall’affermarsi in quest’epoca di una corrente realistica, alimentata dagli stessi ritratti di Vespasiano di primo tipo, che si oppone alla tendenza classicheggiante che ha dominato prima i ritratti augustei e poi quelli giulio-claudi e che tende a recuperare e rivalutare i modelli repubblicani.

La cronologia del pezzo è quindi controversa sebbene la presenza di chiaroscuri coloristici e la plasticità di alcuni particolari quali le prominenti arcate sopraccigliari o la carnosità morbida delle labbra, insoliti per l’epoca repubblicana, tendano a suffragare la datazione in età flavia.

BIBLIOGRAFIA

Mustilli 1939, p. 4, n. 2, tav. II, 4-5; Helbig 1966, n. 1597: H. von Heintze (con bibliografia precedente).

Busto di donna anziana [P. 198]

(Barbara Pettianu)

Il busto, alto cm. 40, (n. 447) è stato ritrovato nel 1919 durante i lavori per l’allargamento e il livello della strada che conduce dalla Porta san Paolo alla Basilica (cfr. n. 448). La sistemazione stradale ha portato in luce i resti di un vasto sepolcreto, in parte già scoperto negli anni 1897 – 1898 nella costruzione del collettore urbano sulla riva sinistra del Tevere. Altre testimonianze della stessa necropoli erano state localizzate in precedenza sotto la Basilica in occasione della ricostruzione dell’edificio, bruciato nel 1823 (Lugli, in bibl., p. 285).

Il pezzo proviene dal sepolcro designato con il n. XI, appartenente, come si desume dalla iscrizione ritrovata sulla porta, a dei Valeri di origine libertina e costruito per la morte della giovane Valeria Restituta, figlia del liberto Lucio Valerio Varrone e di Valeria Brundisina. Il colombario in laterizio, la cui impostazione è databile al I secolo d. C., era decorato da stucchi e pitture e conteneva tre urne cinerarie; il busto in questione venne ritrovato, fuori posto, nell’angolo SE (Lugli 1919, pp. 321 ss.).

L’immagine proposta è quella di una donna anziana, ormai avanti negli anni, dal volto raggrinzito e segnato da profonde rughe di espressione; i lineamenti risultano appesantiti dall’età, lo sguardo fisso negli occhi, segnati da pesanti palpebre a cordone, accentua la severità del taglio della bocca dalla labbra serrate. L’attenzione ai tratti del viso dell’anziana signora viene distolta dalla ricca acconciatura che si contrappone con la sua esuberante complicazione alla semplicità della fisionomia.

I capelli sono disposti in una doppia banda con scriminatura centrale sulla fronte; la banda inferiore, più piccola, è lavorata come una treccia incisa mentre quella superiore, più larga, è composta da riccioli semilunati ordinatamente disposti. Un piccolo ricciolino ricurvo ricade sulla guancia sinistra all’altezza dell’attaccatura delle orecchie. Al di sopra di un’ampia fascia liscia, i capelli sono composti in una serie di trecce che girano più volte intorno al capo raccogliendosi in una sorta di nodo sulla nuca. La sommità stessa della testa è ricoperta da fitte treccioline appiattite, accuratamente segnalate ad incisione.

Il busto, la cui base è decorata da una foglia di acanto (Jucker 1961, p. 72, St. 10, tav. 24), è vestito di tunica, che lascia in parte scoperta la spalla destra, e palla che ricade su quella sinistra.

La pettinatura richiama modelli traianei o dell’inizio dell’età di Adriano trovando confronti (Fittschen-Zanker, in bibl.) con ritratti appartenenti a quell’epoca, tra cui si cita la testa del Metropolitan Museum (Richter 1948, n. 63). L’acconciatura risulta essere una versione semplificata di quella adottata dalle donne della casa imperiale come si può vedere, ad esempio, dal ritratto divinizzato di Matidia, dove tra la banda di ricciolini sulla fronte e le trecce alla sommità del capo si imposta un complicato diadema di grossi ricci (Fittschen-Zanker 1983, p. 9, n. 8, tav. 10). La testa della necropoli ostiense può inoltre essere avvicinata a due ritratti, maggiormente curati nell’esecuzione, del Museo Nazionale Romano la cui datazione oscilla tra la tarda età traianea e l’inizio di quella adrianea (Mus. Naz. Rom., I, 9, I p. 243, R183 e p. 245, R184: L. Martelli).

Si deve rilevare che l’opera non appare rifinita: sul lato destro lo scultore non ha caratterizzato con le apposite incisioni i capelli che incorniciano la fronte e lo stesso viso della donna dimostra chiaramente di non aver ricevuto la politura finale, mentre altri segni di un’avanzata ma non conclusa lavorazione si colgono all’attacco della testa con il collo ed anche, in modo meno accentuato, sul lato sinistro del volto.

Ci troveremmo quindi davanti ad un busto non finito, forse a causa del sopraggiungere della morte dell’anziana committente. La donna, appartenente sicuramente ad un solido ceto medio come dimostra la relativa decorativa della tomba, ha voluto affidare, con dignitosa ed ingenua sicurezza, la propria immagine a modelli cari alle grandi dame dell’impero. La vecchiaia e i tratti semplici rendono in qualche modo incongrua la scelta della tunica che lascia in parte scoperta la spalla destra, richiamando lo schema delle rappresentazioni delle imperatrici o delle ricche matrone come Venere (cfr. Wrede 1981, pp. 306 ss). Ma tale scelta diviene assolutamente comprensibile: la vecchia signora ha voluto tramandare ai propri posteri nel modo migliore possibile quella che era, probabilmente, la sua unica effige: facendo cioè riferimento alle iconografie della grande aristocrazia.

BIBLIOGRAFIA

G. Lugli, in NSc, 1919, p. 323, fig. 18; Fittschen-Zanker 1983, p. 55, n. 72, tavv. 90-91 (con bibliografia precedente).

Erma di Dioniso giovane [P. 199]

(Barbara Pettianu)

La piccola erma, (n. 448) alta cm. 50, è stata ritrovata nel 1919 negli scavi eseguiti presso san Paolo sulla via Ostiense in occasione dell’allargamento e il livellamento della strada che conduce da Porta San Paolo alla Basilica. Durante i lavori fu scoperto un vasto sepolcreto (cfr. n. 447), la cui frequentazione è attestata dall’età repubblicana al IV secolo d. C..

L’erma proviene dalle terre che ricoprivano il sepolcro tardo repubblicano del liberto M. Scanianus Lucrio, contrassegnato con il n. XXVI, a cui si sovrapposero nel I e II secolo d.C. dei colombari in laterizio (Lugli, in bibl., p. 341).

Il dio, imberbe, è rappresentato in età giovanile; il morbido torso è in parte ricoperto dalla nebride, annodata sulla spalla destra (per Dioniso con nebride cfr., ad esempio, Schröder 1989, tipo B, pp. 126 ss., tavv. VI-VII). Il braccio destro era alzato, quello sinistro forse piegato all’altezza del gomito. Il braccio destro e l’avambraccio sinistro, ora mancanti, erano riportati e fissati mediante perni. Di uno di essi rimane chiaramente traccia nella frattura del braccio sinistro, mentre parte di un perno antico è visibile all’attacco del braccio destro, la cui superficie è accuratamente lisciata per permettere una perfetta adesione delle due parti.

La testa del giovane dio, mancante della calotta cranica (presente in Lugli, in bibl.) anch’essa lavorata a parte, è leggermente inclinata in avanti e volta a destra; i capelli, disposti in lunghe ciocche disordinate, ricadono sulla schiena e sulle spalle.

Il modellato del volto e del collo contrasta con quello del corpo: i lineamenti non sono infatti rifiniti, occhi e bocca sono poco più che sbozzati, sul collo massiccio si notano tracce evidenti dalla lavorazione. Il corpo appare invece delicatamente lavorato: le morbide e quasi femminee forme di Dioniso sono rese con accuratezza, assecondate dalla pelle della pantera. La discrepanza tra la lavorazione del torso e quella della testa non pregiudica la piacevolezza d’insieme della piccola statua, accentuata dalla calda tonalità dorata del marmo pentelico, e può essere forse spiegata con un’eventuale rifinitura in stucco del volto. Rimangono abbondanti tracce di policromia sulla nebride e sui capelli.

Lo schema proposto dalla piccola erma richiama quello del satiro versante di Prassitele. La grande fortuna di quest’opera è testimoniata dall’elevatissimo numero di copie prodotte in età romana (cfr. un elenco in Gercke 1968, pp. 1 ss.). E’ stato sostenuto che una variante preveda l’adattamento del tipo all’immagine di Dioniso (cfr. Mus. Naz. Rom. I, 1, p. 89, n. 70: J. Papadopoulos; Mus. Naz. Rom., I, 5, p. 137, n. 59: B. Palma) trasformando, appunto, la figura del satiro in quella del dio mediante l’eliminazione degli attributi ferini, le orecchie appuntite e la coda, la trasformazione dell’oinochoe nella mano destra in un grappolo d’uva e della coppa nella sinistra in un corno potorio (torsi a Berlino e a Petworth House: Gercke 1968, p. 7, T2, p. 9, T6) e l’introduzione dei lunghi riccioli che ricadono sulle spalle e sulla schiena (cfr. la statua acefala del Museo Nazionale Romano: Mus. Naz. Rom., I, 1, p. 90, n. 71: J. Papadopoulos; Gercke 1968, p. 7 considera erronea l’identificazione di Weege 1929, p. 22, nota 5 di questa statua con una replica del satiro versante; cfr. sul delicato problema anche Pochmarski 1969, tipo D/1, p. 123 ss.).

Comunque sia, nel nostro caso si tratta di un’immagine di Dioniso con nebride che ricalca lo schema del satiro versante (a questo proposito si ricorda una vecchia ipotesi del Rizzo che, in base ad una statua rappresentata su di una moneta di Pautalia in Tracia, ha supposto l’esistenza di un Dioniso scolpito da Prassitele sullo schema del satiro: Rizzo 1932, p. 20, tav. LXII, 5) e che rappresenta un ulteriore distacco dall’iconografia dell’opera prassitelica con l’adattamento del tipo statuario ad erma naturalistica. Tale procedimento affonda le sue radici nel mondo ellenistico come testimoniano, ad esempio, il ciclo di sei grandi erme in pentelico, derivate da tipi statuari e probabilmente provenienti dagli Horti Sallustiani, attribuite al II-I secolo a. C. (Mus. Naz. Rom., I, 5, p. 156: B. Palma), oppure le erme ritrovate a Delo (Marcadè 1969, p.435, tav. XVIII, A 2120, A 349, A4263) e a Pergamo, dove è stato recuperato anche un esemplare di piccole dimensioni (Altertümer von Pergamon, VII, 2, n. 258).

Le rappresentazioni dionisiache in ambito funerario sono estremamente diffuse ed in questo senso la presenza della piccola erma dionisiaca in un’area sepolcrale può essere considerata del tutto naturale (per l’uso funerario delle erme cfr. Wrede 1985, p. 42): alla figura del dio, che ha forti valenze ctonie, è legata una speranza di vita oltre alla morte (Cumont 1942, p. 284 ss.).

Problematica, per le circostanze di ritrovamento, per la assenza di rifinitura dei tratti del volto e per la mancanza di confronti diretti, è la datazione. Alcuni elementi indicativi possono essere dati dal trattamento morbido e levigato della superficie del torso e dall’elegante e naturalistica resa della pelle ferina, caratterizzata da un tenue e volumetrico plasticismo, privo di forti contrasti chiaroscurali, che si rivela, ad esempio, nella soffice ripiegatura del bordo superiore della nebride. Si potrebbe quindi suggerire in via ipotetica una datazione in età giulio claudia.

BIBLIOGRAFIA

G. Lugli, in NSc, 1919, p. 343, fig. 28.

Corredo funerario di Crepereia Tryphaena [P. 201]

(Emilia Talamo)

Nel 1889, durante i lavori per la costruzione del Palazzo di Giustizia, venne alla luce una vasta zona archeologica di destinazione sepolcrale. Sul lato orientale dell’area si rinvennero due sarcofagi disposti uno accanto all’altro e allineati lungo uno dei lati brevi quasi a costituire un’unica sepoltura bisoma. Come risulta dalle iscrizioni che compaiono sul sarcofago in un caso e sul coperchio nell’altro, si tratta di Crepereivs Euhodvs e di Crepereia Tryphaena appartenenti alla stessa famiglia come viene provato dall’identità del gentilizio; entrambi hanno cognomina grecanici (Tryphaena trova origine in ambiente siriano o egiziano) che denunciano, se non la nascita, la lontana origine da un paese di lingua greca, nonché la condizione sociale di liberti o di discendenti da liberti.

Una famiglia illustre e decisamente facoltosa, quella dei Crepereii, dedica ai familiari due sarcofagi in marmo proconnesio (proveniente dalle cave dell’Asia Minore), che vengono appositamente lavorati su un lato corto ed uno lungo con uno schema inconsueto e funzionale alla messa in opera in un’unica sepoltura. Presentano entrambi una decorazione a strigilature su uno dei lati lunghi secondo una sintassi decorativa molto frequente nei sarcofagi in proconnesio diffusi a Roma tra il II e il III secolo d. C. Sulla cassa di Crepereia compare anche una decorazione sulla fronte costituita da una scena di compianto funebre.

L’origine della famiglia da un’area orientale di lingua greca, che potrebbe anche essere identificata con i Crepereii, noti dalle fonti epigrafiche della seconda metà del II secolo d. C. per i ben consolidati interessi commerciali in Oriente, e la sua illustre posizione economica sono pienamente confermate dal corredo funerario deposto nel sarcofago di Crepereia.

Una corona formata da rametti di mirto trattenuti da un fermaglio di argento è l’unico elemento con funzione decisamente funeraria sia per il tipo di oggetto sia per la presenza del mirto sacro a Proserpina.

Spiccano nell’ambito del corredo per la raffinatezza di esecuzione i gioielli: gli orecchini d’oro con gancio ad S e pendente a filo godronato con perla all’estremità che rientrano in una tipologia già ampiamente diffusa nel I secolo d. C.; la collana a maglie d’oro alle quali sono appesi piccoli prismi di berillo ad otto faccie con semplice chiusura a gancio inserito in un anello; tre anelli inquadrabili in tipologie ben diffuse nell’ambito del II secolo d. C., uno con eliotropio, un altro con diaspro rosso decorato ad intaglio con due mani che si stringono tenendo spighe di grano e papavero (simbolo di buon augurio) e l’alto con calcedonio a due strati su cui è intagliato il nome FILETVS (da intendersi come nome proprio – il marito di Crepereia – o come aggettivo che indichi il vincolo di affetto tra il donatore dell’anello e Crepereia).

L’oggetto più prezioso, forse un gioiello di famiglia, è rappresentato da una spilla d’oro con montatura lavorata a sbalzo da cui pendono lunghe catenelle terminanti con piccole foglie d’edera; nella montatura è racchiusa un’ametista, ovale e appena convessa, sulla quale è inciso ad intaglio un grifo che azzanna uno stambecco. Il gioiello ripropone motivi di tradizione ellenistica sia nell’elegante e miniaturistica tecnica di lavorazione dell’oro sia nel raffinato intaglio della pietra, opera più antica rispetto all’attuale montatura e riferibile probabilmente ad artisti orientali, forse alessandrini, attivi a Roma nel I secolo a. C.

La ricchezza di questo corredo è ulteriormente confermata dalla presenza di una splendida bambolina in avorio dalle articolazioni snodate: busto e testa sono ottenuti da un unico blocchetto di avorio mentre gli arti, collegati con piccoli perni, permettevano l’articolazione all’altezza del gomito e delle ginocchia. Il corpo è modellato con delicate notazioni anatomiche curate fin nei minimi particolari (dal disegno delle dita affusolate all’accentuata plasticità dei piedi dalla pianta arcuata) e con accenti naturalistici che conferiscono alla figurina l’aspetto di una persona adulta. Con straordinaria abilità è intagliata la testa dalla elaborata acconciatura che riprende gli schemi durante il regno di Antonino Pio e di Marco Aurelio dalle due Faustine, la maggiore e la minore (150-160 d. C.).

La bambola era ornata dei suoi gioielli: un anellino d’oro a chiave, un altro a castone in cui sono inseriti due anelli lisci e due orecchini, come si intuisce dai forellini nei lobi delle orecchie, che non ci sono purtroppo pervenuti.

Un cofanetto con applicazioni eburnee, pettinini in avorio, specchietti di argento e una conocchia con museruola in ambra compaiono infine come elementi caratterizzanti di uno dei pochissimi rinvenimenti funerari di età medio imperiale a Roma.

BIBLIOGRAFIA

R. Lanciani-A. Castellani in “BullCom” 1889, pp. 173-180. A. Pfeiler, Römischer Goldschmuck des ersten und zweiten Jahrhunderts nach Chr. nach datierten Funden, Mainz 1970, pp. 75-78, n. 2, p. 112, n. XXVII; Crepereia Tryphaena. Le scoperte archeologiche nell’area del Palazzo di Giustizia, cat. della mostra (Roma 1983), Venezia 1983; Bellezza e Seduzione 1990, pp. 110-111, n. 220, fig. 34 (E. Talamo). L. Pirzio Biroli Stefanelli, L’Oro dei Romani, Roma 1991, pp. 251-252, nn. 135-140, figg. 186-194.

© Capitoline Museums 2010