[ urn:collectio:0001:doc:marmicolorati:2003 ]

Indice antcom:02190 antcom:02191 antcom:03485 antcom:03486 antcom:03487 antcom:03488 antcom:03489 antcom:03490 antcom:03491 antcom:03492 antcom:03493 antcom:03494 antcom:03495 antcom:03496 antcom:03497 antcom:03498 antcom:03499 antcom:03500 antcom:03501 antcom:03502 antcom:03503 antcom:03504 antcom:03505 antcom:03506 antcom:03506 antcom:03516 antcom:03517 antcom:03518 antcom:12437 antcom:28589 antcom:32390 antcom:32391 antcom:34039 antcom:34040 antcom:34041 antcom:34086 antcom:34086 antcom:34141 antcom:35179 antcom:35185 antcom:35186 antcom:35187 antcom:35188 antcom:35189

CATALOGO DELLE OPERE

SEZIONE IV. LA STATUARIA

50. Tre doppie erme di menadi urn:collectio:0001:antcom:34039

(Maddalena Cima)

Roma, Antiquarium Comunale al Celio, inv. nn. Ac 34039, 34040 urn:collectio:0001:antcom:34040 , 34041 urn:collectio:0001:antcom:34041 . da Roma, Esquilino, Terme di Nerazio Ceriale (1873). rosso antico; altezza (dell'esemplare meglio conservato) 70,3 cm. I-II secolo d. C. inv. n. ac 34039: ben conservata, le testine sono riattaccate, la parte bassa del fusto è ricongiunta; piccole lacune a livello delle mani. Gli occhi, cavi, mostrano tracce dell'originario intarsio in pasta vitrea (?); inv. n. ac 34040: si conserva solo la parte centrale della figura, dal livello dei seni in giù, dove appare tagliata con una linea netta; la parte bassa dell'erma è ottenuta separatamente e poi ricongiunta, fratturata nella parte inferiore; inv. n. ac 34041: mancano le testine

Le tre erme in rosso antico sono state rinvenute nel 1873 nel corso degli scavi per la costruzione di nuovi edifici nel settore compreso tra via Cavour e piazza dell'Esquilino, alle spalle della Basilica di Santa Maria Maggiore. Gli scavi, estremamente complessi per i notevolissimi dislivelli del terreno, hanno restituito strutture difficilmente interpretabili di edifici antichi, elementi di decorazione architettonica in preziosi marmi colorati, nonché un certo numero di sculture in marmo e in bronzo che dovevano appartenere alla decorazione degli ambienti. Tra i ritrovamenti anche una base con iscrizione: «NAERATIVS / CEREALIS V.C. / CONS ORD / CONDITOR / BALNEARUM / CENSVIT». Sulla scorta di questo documento le strutture antiche furono quindi interpretate come gli avanzi di un antico complesso termale forse annesso a una grande residenza urbana della famiglia dei Naeratii (Lanciani 1874; Guidobaldi 1995). In particolare il Naeratius Cerealis citato dall'iscrizione fu praefectus Urbi nel 352-353 e console nel 358 d. C., quindi al IV secolo d. C. vengono generalmente fatti risalire l'impianto dell'edificio termale e la concezione del suo apparato decorativo (Lanciani 1874). In realtà la situazione è probabilmente più complessa e articolata dal momento che i resti rinvenuti non possono essere ricono­sciuti con certezza come quelli di un edificio termale, che non lontano dalla zona in cui si sono verificati i ritrovamenti è stata individuata una proprietà attribuibile a due Naeratii del II secolo d. C. (Gatti 1905; Guidobaldi 1995), e che, infine, difficilmente le opere rinvenute nelle cosiddette «terme» possono essere attribuite a epoca così tarda.

In particolare le raffinate erme di rosso possono essere più facilmente inquadrate nella corrente arcaistica in voga tra il I e il II secolo d. C. Si tratta di tre statuette in forma di doppia erma, con la parte inferiore costituita da un sottile pilastrino rastremato verso il basso sul quale si innestano i corpi delle delicate figure femminili bifronti. Tali figure, identificabili come menadi dal confronto con un'analoga doppia erma arcaistica nella quale alla testa femminile è accostata una testa di satiro (Reinach 1897-1930, II, p. 526, nn. 3, 4), sono vestite da un leggero chitone manicato caratterizzato da sottili piegoline ondulate, al quale si sovrappone un himation più pesante a pieghe piatte, i cui lembi sono sorretti lateralmente dalle mani e che, sul davanti, forma il caratteristico motivo a «v» rovesciata. Le testine, che risentono a loro volta di forti accenti arcaistici, sono caratterizzate da occhi a mandorla che, in origine, dovevano essere vivacizzati da intarsi in pasta vitrea; il volto ovale è incorniciato da una folta e lunga capigliatura disegnata in ciocche ondulate che terminano appoggiandosi alle spalle. Il capo è sormontato da un diadema che forma, sulla fronte, volute coronate da palmette.

Le tre erme dell'Antiquarium, rimontate su un'unica base in marmo nero, bordata da cornicette in rosso antico (parte di quelle rinvenute nello stesso edificio), appartengono a una serie nota cui sono riferibili diversi altri esemplari, sempre in rosso antico, al Museo Nazionale Romano (Radiance in Stone 1989, pp. 100-101, nn. 20-21: Cioffarelli, con datazione al IV secolo d. C.; Gregarek 1999. pp. 234 ss., nn. D145, D146), a Bologna (Brizzolara 1986, pp. 98 ss., n. 46, tavv. 92-93; Gregarek 1999, p. 234, n. D141), a Copenaghen (Poulsen 1951, p. 54, n. 40; Gregarek 1999, p. 234, n. D144), più un esemplare in nero antico a Palermo (Gregarek 1999, p. 234, n. D142) e uno in marmo bianco a Cambridge (Budde-Nicholls 1964). Si tratta di una produzione di stampo decorativo destinata ad ambienti privati, a imitazione di opere di maggior impegno formale quali, per esempio, le tre erme femminili (cosidette Danaidi) in nero antico dal Palatino (Gregarek 1999, p. 242, nn. E2-E4), concepite per monumenti a carattere ufficiale.

Alcuni problemi suscita l'interprelazione della precisa destinazione di queste erme: mentre per quelle del Palatino è stata ipotizzata una vera e propria funzione architettonica come cariatidi (Balensiefen 1995), le piccole dimensioni degli esemplari in oggetto suggerirebbero un'utilizzazione come sostegni per balaustre, secondo quanto risulta da numerosi documenti figurati e da un'iscrizione nemorense: «cancelli aenei cum hermulis n VIII INTRO et FORAS» (riferita evidentemente a elementi in bronzo) (cfr. Wrede 1972, pp. 135 ss.). Mentre però l'esemplare di Copenaghen ben si adatta a una simile destinazione per la presenza di piccoli fori di ancoraggio sui fianchi, per le erme dell'Antiquarium, una delle quali presenta un foro alla sommità del capo, si deve pensare a una funzione leggermente diversa.

Bibliografia: J. Stuart Jones, Pal.Cons., pp. 301 ss., n. 9, tav. 119; Budde-Nicholls 1964, p. 61; Gregarek 1999, p. 234, n. D143.

SEZIONE V. GLI ARREDI

GLI ARREDI: VASCHE, ERME E TRAPEZOFORI

91.-92. Due lastre con pantere urn:collectio:0001:antcom:02190

(Maddalena Cima)

Roma, Antiquarium Comunale, inv. nn. 2190, 2191 urn:collectio:0001:antcom:02191 . da Firenze, Museo Niccolini. pavonazzetto; altezza 35 cm, larghezza 94 cm, profondità 3 cm. I secolo d. C. la lastra inv. n. 2191 presenta una linea di frattura verticale

Le due lastre, che appartengono a una serie di quattro, furono acquistate per i Musei Capitolini dal Museo Niccolini di Firenze (Armellini-Mori 1845), e sistemate a decorare le pareti del gabinetto della Venere nel Palazzo Nuovo. Ciascuna di esse rappresenta due pantere affrontate in posizione araldica ai lati di un kantharos, con una delle zampe anteriori sollevate e appoggiate all'ansa. I vasi, ricolmi di foglie e grappoli d'uva, riproducono modelli metallici e presentano la superficie decorata da motivi di­versi: in un caso, sul corpo del vaso che sorge da una base decorata da motivi vegetali si trova un amorino tra girali d'acanto, mentre sul collo compare una maschera scenica sullo sfondo di una pelle tesa; nel secondo caso il corpo del kantharos è baccellato e la decorazione figurata è limitata al collo dove compare un'altra maschera scenica con alcuni strumenti musicali, sempre accompagnati dalla pelle tesa. La decorazione è ricavata a rilievo molto basso: le pantere, che appaiono alquanto disorganiche con grandi teste e corpi tozzi, sommariamente descritti, mostrano formulazioni piuttosto diverse nei due esemplari.

Si tratta di opere a carattere spiccatamente decorativo, che rimandano con chiarezza, nei soggetti scelti, al mondo dionisiaco: animale dionisiaco per eccellenza è la pantera, che non manca mai nelle raffigurazioni dei corteggi che accompagnano il dio; dionisiaco è il kantharos che richiama il vino, pre­zioso dono di Dioniso all'umanità; dionisiaco è il riferimento al teatro suggerito dalle maschere sceniche presenti sul collo dei vasi; dionisiaco, infine, è il marmo pavonazzetto che rimanda, con le sue venature purpuree, al colore del vino.

Dal momento che le quattro lastre sono giunte ai Musei Capitolini tramite una collezione privata, non è possibile risalire con certezza alla loro provenienza: la destinazione originaria di questi elementi decorativi può quindi solo essere ipotizzata. La soluzione più probabile è che esse facessero parte della decorazione del giardino di una domus, dove, a giudicare dai numerosi esempi pompeiani, la tematica dionisiaca trova la sua naturale collocazione: la molteplicità dei personaggi e degli spunti iconografici legati a questo soggetto, la presenza di numerosi elementi simbolici insieme alla sua ambientazione naturale, offrivano infatti un'infinita serie di combinazioni figurative adatte alla creazione di gruppi scultorei e alla decorazione degli oggetti più diversi, ben inseribili nell'«arredo» del giardino e nella sua vegetazione, tanto da diventare, ben presto, soggetti di genere, non più necessariamente legati alla sfera religiosa.

In particolare, il motivo delle pantere affrontate ai lati di un vaso, ovvero cavalcate da amorini, si ritrova, con lo stesso intento decorativo, in due serie di lastre Campana databili tra il I secolo a. C. e il I secolo d. C. (Rohden-Winnefeld 1911, tavv. I, 2; lxvi, I; lxvi, 2, CXVIII, I; p. 77, figg. 154-155), rinvenute sia in strutture residenziali (Marino, Villa di Voconio Pollione) che in ambienti funerari (Colombari di porta Maggiore) (cfr. Rizzo 1976-1977, passim).

Quanto al marmo pavonazzetto che, come abbiamo visto, costituisce in questo caso un preciso richiamo al mondo dionisiaco, mentre fu largamente diffuso nella decorazione architettonica per pavimenti e lastre di rivestimento, appare poco utilizzato in scultura e generalmente per rappresentare personaggi legati alla sua origine frigia (Marsia, Ganimede, figure di barbari); molto rari sono i rilievi decorativi in questo materiale: particolarmente notevoli un frammento di architrave-fregio dalla Domus flavia sul Palatino decorato con maschera, rami d'olivo e tralci di vite (Tornei 1997, p. 83, n. 57), e un rilievo figurato con scene dionisiache a Villa Albani (Villa Albani, III, 1992, pp. 239 ss., n. 340: C. Gasparri).

Bibliografia: Armellini-Mori 1845, vol. IV, p. I, tavv. 334, 335, 336, 337; Riflessi di Roma 1997, p. 81, nn. 26-27: M. Cima.

103. Sostegno di fontana urn:collectio:0001:antcom:35179

(Sabrina Violante)

Roma, Antiquarium del Celio, inv. n. 35179

da Roma, via de Burrò, nelle vicinanze del Tempio di Adriano

porfido rosso; altezza totale 75 cm, diametro superiore ricostruito 146 cm, larghezza inferiore totale ricostruita 220 cm, lato plinto 91, altezza plinto 20 cm; diametro ricostruito dell'incasso 36 cm circa, profondità totale incasso 10-10,5 cm

II secolo d. C.

si conserva circa un quarto del sostegno, con un lato del plinto e parte dei due a esso contigui

II sostegno presenta a partire dal basso un plinto, in origine di forma ottagonale, seguito da un toro dalla curvatura ben sviluppata, separato attraverso un sottile listello dal fusto di forma troncoconica, basso ed espanso, coronato da un anello sporgente.

Sul piano superiore si conserva parte di un incasso di forma circolare relativo all'alloggiamento del bacino, le cui ipotetiche dimensioni dovrebbero aggirarsi intono ai 4 metri (Pensabene 1998a, p. 247); al centro di tale incasso e lungo il lato fratturato a esso adiacente resta parte del canale di adduzione dell'acqua, il che chiarisce la funzione del piedistallo come arredo di fontana.

La tipologia dell'esemplare e le dimensioni ricostruite rinviano a una particolare classe di sostegni di carattere monumentale, generalmente realizzati in porfido e granito (Delbrück 1932, pp. 169-192; Varming 1965).

Rispetto alla maggior parte di questi manufatti, l'esemplare esaminato risulta privo dell'intaglio del collarino che generalmente scandisce la superficie del fusto a circa due terzi della sua altezza, caratteristica che lo accomuna al piedistallo conservato a Roma nel Cortile del Belvedere con cui condivide anche la sequenza delle modanature e la forma del plinto (Varming 1965, p. 125, tav. v).

Tra gli esemplari in porfido il confronto più vicino va istituito con un piedistallo inedito, conservato nella Basilica dei Santi Achilleo e Nereo, dal plinto ottagonale, ma dalle modanature piuttosto schiacciate.

Il luogo di rinvenimento e la qualità del marmo impiegata rinviano a un'ipotetica committenza imperiale probabilmente intervenuta in lavori di sistemazione nell'area del Campo Marzio.

Bibliografia: Gatti 1898, pp. 40 ss.; Delbrück 1932, pp. 184-185; Pensabene 1994, p. 202, n. 16; Pensabene 1998a, p. 347, tav. 2, I.

SEZIONE VI. L'ARCHITETTURA PUBBLICA E PRIVATA

129.-132. Serie di capitelli di lesena urn:collectio:0001:antcom:03485 in opus sectile

(Maddalena Cima)

Roma, Antiquarium Comunale, inv. nn. 3517 [131] urn:collectio:0001:antcom:03517 ; 3518 [132] urn:collectio:0001:antcom:03518 ; 3485-03486 urn:collectio:0001:antcom:03486 - 03487 urn:collectio:0001:antcom:03487 - 03488 urn:collectio:0001:antcom:03488 - 03489 urn:collectio:0001:antcom:03489 - 03490 urn:collectio:0001:antcom:03490 - 03491 urn:collectio:0001:antcom:03491 - 03492 urn:collectio:0001:antcom:03492 - 03493 urn:collectio:0001:antcom:03493 - 03494 urn:collectio:0001:antcom:03494 - 03495 urn:collectio:0001:antcom:03495 - 03496 urn:collectio:0001:antcom:03496 - 03497 urn:collectio:0001:antcom:03497 - 03498 urn:collectio:0001:antcom:03498 - 3499 urn:collectio:0001:antcom:03499 - 03500 urn:collectio:0001:antcom:03500 - 03501 urn:collectio:0001:antcom:03501 - 03502 urn:collectio:0001:antcom:03502 - 03503 urn:collectio:0001:antcom:03503 - 03504 urn:collectio:0001:antcom:03504 - 03505 urn:collectio:0001:antcom:03505 - 3506 urn:collectio:0001:antcom:03506 - [133] urn:collectio:0001:antcom:03506 ; 3516 [130] urn:collectio:0001:antcom:03516 . da Roma, Esquilino, Horti Lamiani (1874). rosso antico, giallo antico, palombino bianco e calcare verde;. inv. n. 3517, altezza 23,5 cm, larghezza massima 29 cm, spessore 1 cm

l'esemplare meglio conservato, n. 3517, è quasi intero: manca della voluta sinistra e di parte degli intarsi; il n. 3518 è conservato per metà e manca della voluta e di parte degli intarsi; gli altri pezzi sono frammentari e lacunosi

I capitelli di lesena sono ricavati da lastre di rosso antico, nelle quali sono praticati incassi a forma per l'inserimento di lastrine di marmi e calcari colorati che creano un vivacissimo effetto coloristico. Sulla base di marmo rosso si stagliano due corone di foglie d'acanto rese in giallo antico con le nervature finemente incise e, in alcuni casi, con i margini «focati» per ottenere una colorazione più carica. Tra le foglie della corona di base si inseriscono elementi lanceolati in calcare verde. Caulicoli e calice centrale sono in palombino, mentre due spighe in calcare verde arricchiscono il partito decorativo della parte alta del capitello.

La tecnica di lavorazione è particolarmente raffinata: le lastrine di marmi e calcari colorati sono tagliate con grande precisione per l'inserimento negli appositi incassi - della stessa forma, al negativo - ricavati nella lastra di fondo in rosso antico. La superficie degli incassi è stata lasciata volutamente irregolare in modo da favorire l'adesione delle lastrine tramite un mastice.

In un celebre passo Plinio, parlando a proposito della pittura, lamenta l'introduzione di nuove tecniche decorative e dice: «ora però è stata soppiantata dai marmi e persino dall'oro al punto che non solo tutte quante le pareti ne sono ricoperte, ma si hanno anche marmi intarsiati e lastrine tagliate a forma di cose e di animali [..] abbiamo cominciato a dipingere anche con il marmo. Questo è stato inventato sotto il principato di Claudio» (Plin., NH xxxv, 2-3). Si tratta di una descrizione straordinariamente aderente alla tecnica usata per i capitelli degli Horti Larniani e per un piccolo gruppo di opere circoscrivibili per epoca e per procedimento di lavorazione. A tale gruppo appartengono due pannelli pompeiani con scene figurate su un fondo di lavagna da Pompei (Elia 1929), i numerosissimi frammenti di intarsi riproducenti figurine di eroti ed elementi vegetali dalla Domus Transitoria sul Palatino (Dohrn 1965; Tornei 1997, pp. 72 ss., nn. 46-47) nonché le crustae figurate che, come quelle del Palatino, sono ormai svincolate dal fondo originario, dal ninfeo sommerso di Baia (Andreae 1983, pp. 160-161). A queste opere, tutte assegnabili al I secolo d. C. si possono affiancare i frammenti di lastre in lavagna con intarsi in marmi colorati a carattere geometrico e vegetale da Villa Adriana (schede nn. 195-198) che permettono di riscontrare una persistenza di questa tecnica decorativa ancora nel II secolo d. C. Gli esempi di intarsi marmorei parietali in epoche successive (fino alla straordinaria fioritura del IV secolo d. C.) mostrano una tecnica diversa con le crustae giustapposte le une alle altre, senza il medium della lastra di fondo.

La serie di capitelli in rosso antico fu rinvenuta alla fine dell'Ottocento negli scavi per la costruzione di nuovi quartieri all'Esquilino. In particolare il luogo del ritrovamento corrispondeva alla zona occupata nell'antichità dagli Horti Lamiani: una proprietà nata come residenza privata tra la fine del I secolo a. C. e il I secolo d. C. e poi passata, sotto il principato di Tiberio o di Caligola, in mano imperiale (Cima-La Rocca 1986). Le cronache degli scavi ottocenteschi descrivono la straordinaria raffinatezza degli apparati decorativi della villa: in particolare una galleria sotterranea, lunga più di settanta metri, con pavimenti delle più rare qualità di alabastri, colonne in giallo antico con basi e capitelli in stucco dorato, rivestimenti parietali in bronzo dorato decorati da vere gemme multicolori. In questo panorama si inseriscono anche i preziosi capitelli intarsiati, che in origine dovevano essere posti a coronamento di lesene in marmo colorato, a movimentare la superficie di una parete.

Un recente rinvenimento, effettuato durante i lavori urbanistici del Giubileo del 2000 e finora divulgato solo giornalisticamente («L'Espresso», 27 gennaio 2000, pp. 70-73), conferma la ricchezza decorativa dei giardini imperiali (in questo caso si tratta probabilmente degli Horti di Agrippina) e fornisce buoni termini di confronto per il complesso degli Horti Lamiani: sono state rinvenute, tra le altre cose, lastre pavimentali in alabastro, orientale, raffinati elementi di rivestimenti parietali in pavonazzetto e rosso antico, nonché un capitello di lesena in rosso antico nel quale gli elementi decorativi in marmi e pietre dai colori contrastanti sono sovrapposti alla lastra di fondo anziché intarsiati, secondo una tecnica riscontrabile in un capitello, purtroppo perduto, da Ercolano (Bonanni 1998, pp. 269 ss., tav. 12, 5).

Bibliografia: Cima-La Rocca 1986, pp. 64 ss. (M. Cima); Bonanni 1998, pp. 264 ss., tav. 5, 3.

SEZIONE XI. L'OPUS SECTILE

181. Pavimento in opus sectile urn:collectio:0001:antcom:32390 a modulo quadrato

(Carla Salvetti)

Roma, Antiquarium Comunale, inv. n. 32390. marmi vari; 85 x 67 cm. fine II-inizi III secolo d. C. due formelle complete e due adiacenti, lacunose

II pavimento rientra nella più ampia categoria dell'opus sectile a modulo quadrato. Si tratta di un brano di pavimentazione di modeste dimensioni, con i quadrati di base di 45 centimetri, in cui sono inscritti sulle diagonali due quadrati più piccoli, con l'aggiunta, a partire dai vertici del quadrato di base, di punte di lancia che, nell'unione tra quattro formelle disegnano una stella a quattro punte. Per quanto limitato a due formelle complete e due lacunose, il pavimento presenta un'alternanza di marmi chiari e scuri nei quadrati di base adiacenti, marmi tendenti al giallo nei quadrati intermedi e mattonelle alternativamente chiare e scure al centro, corrispondenti, nel colore, a quella esterna. Le punte di lancia sembrano invariabilmente ricavate da marmi gialli.

Manca in effetti una rigorosa concordanza di tipi marmorei all'interno della stessa formella, dove sono utilizzati, nei tagli angolari, marmi magari dello stesso tipo ma con venature molto differenti oppure marmi di tipo completamente diverso ma con una cromia simile, circostanza che denuncia il riutilizzo delle lastrine marmoree.

Si distinguono frammenti di giallo antico e di breccia gialla, nonché alcuni tagli di pavonazzetto e di greco scritto per i toni più chiari, mentre per quelli scuri, tendenti al verdastro, si nota la presenza, oltre ad alcune scaglie di verde di Tessaglia, di un marmo molto disgregato, che ha fatto pensare alla pietra nefritica.

Questa commistione di marmi porta a considerare il pavimento di fattura piuttosto tarda e a confrontarlo con un pavimento del Battistero di San Giovanni in Laterano e con quello di una domus della regio IV di Ostia su via della Caupona, datata al IV secolo d. C.

Bibliografia: Salvetti 2001, pp. 387-388.

182. Pannello in opus sectile urn:collectio:0001:antcom:32391 con ottagoni a lati concavi

(Carla Salvetti)

Roma, Antiquarium Comunale, inv. n. 32391. da Roma, via Capo d'Africa (1938). marmi vari; 127 x 170 cm. IV secolo d. C. montato su un supporto a nido d'ape, conserva due moduli interi e due lacunosi

Per questo pavimento si hanno notizie circa la provenienza, essendo stato trovato in un pozzo di indagine a una quota di 7 metri sotto il piano stradale, in angolo tra via Capo d'Africa e via Ostilia, in un ambiente appartenente, secondo Colini, a una abitazione. In più l'autore segnalava che alcuni frammenti di marmi bianchi erano ricavati da lastre iscritte con destinazione funeraria, senza tuttavia precisarne il contenuto. Con l'intervento di restauro del 1993, il pavimento è stato staccato dal supporto degli anni trenta in cemento armato da tondini in ferro, e rimontato su un supporto a nido d'ape in alluminio: nell'ambito di questa operazione si è potuto verificare come una sola lastrina di marmo bianco, facente parte di un quadrato centrale, fosse stata riutilizzata da una lastra probabilmente funeraria: recava infatti incisa una «a». La presenza di tarsie con resti di iscrizione aveva già convinto gli editori per una datazione al IV secolo d. C. proprio congetturando che il riutilizzo di lastrine sepolcrali non poteva essere avvenuto prima di un congrue lasso di tempo dalla loro primitiva utilizzazione.

La stesura del motivo prevede all'interno di ogni pannello di 75 centimetri, un ottagono a lati concavi, raccordato ai vertici del quadrato di base da quattro foglioline a cuore.

All'interno dell'ottagono, tangente ai suoi lati, un quadrato inscritto assialmente e incorniciato da un doppio listello. Quattro pannelli accostati determinano quindi un fiore a quattro petali cuoriformi inscritti in un più grande fiore a quattro petali ellittici.

In uno solo dei quadrati centrali, lacunoso, è un altro quadrato inscritto per i vertici; gli stessi quadrati centrali sono di marmi bianchi o grigi; solo uno, anche questo lacunoso, di verde di Tessaglia. Gli ottagoni scuri, come parte delle fascette che bordano i quadrati interni, sono di bardiglio o di cipollino; in quelli a fondo più chiaro si notano inserti di lumachelle; in alcuni petali dei fiori cuoriformi vengono utilizzate infine lastrine di africano.

Già Guidobaldi aveva notato come il pavimento fosse di una notevole qualità, soprattutto per la sapienza degli abbinamenti cromatici e per l'effetto generale di un motivo piuttosto ricercato, nonostante il riutilizzo dei marmi e qualche difficoltà nel raccordo dei singoli elementi.

Queste connotazioni lo avevano portato a confrontare il pavimento di via Capo d'Africa con una formella riutilizzata sotto Santa Sabina, di qualità tuttavia meno raffinata. Del resto la fattura piuttosto ricercata del pavimento ben si accorda con una più generale presenza sul Celio di domus tardo antiche appartenenti all'aristocrazia romana.

Bibliografia: Colini 1944, p. 289, fig. 240, tav. XVI; Guidobaldi-Guiglia-Guidobaldi, 1983 pp. 122-125; Salvetti 2001, pp. 388-389.

183. Pannello in opus sectile parietale urn:collectio:0001:antcom:34141

(Carla Salvetti)

Roma, Antiquarium Comunale. da Roma. inv. n. 34141. marmi vari; 151 x 34 cm. inizi IV secolo d. C. molti tratti delle cornicette sono lacunosi; si conservano quattro riquadri

II pannello è relativo a una decorazione parietale e può essere letto altrettanto correttamente sia in senso verticale che orizzontale. Delimitato da fascette di serpentino di 2 centimetri e campito di marmo giallo antico, ha la superficie scompartita in quattro riquadri rettangolari di 34 e 37 centimetri, quelli centrali legati tra loro e delineati da fascette di porfido, quelli laterali bordati di serpentino con inscritta una losanga di giallo antico bordata di porfido. La campitura di questi due ultimi rettangoli ha una cromia tendente al grigio, ottenuta con lastrine prevalentemente di pavonazzetto.

Anche se vengono utilizzati marmi di reimpiego e tagli non particolarmente pregiati, si nota una certa accuratezza nella redazione, per dare omogeneità a un materiale che certo omogeneo non era, tanto è vero che nel fondo dei riquadri con losanghe le lastrine utilizzate vengono tagliate e posizionate in modo da rendere speculare l'alternanza dei colori. Ricavate da due lastrine intere sono invece le campiture dei rettangoli centrali, una di pavonazzetto in un taglio particolarmente tendente al grigio, l'altra dello stesso marmo ma con un fondo più chiaro. Il piccolo segmento che unisce le due lastre è ri­cavato, con estrema raffinatezza, da un taglio di marmo che sfuma dal grigio al bianco, in modo quindi che si crei una continuità di colore sfumato. Che si tratti di una decorazione parietale, scaturisce facilmente dai confronti, tutti di epoca tardo antica, che si possono istituire: a cominciare dalla fascia al di sopra della zoccolatura nella parete della Basilica di Giunio Basso, particolarmente coerente con il nostro pannello nel motivo dei due rettangoli centrali uniti tra loro: in questo caso sarebbe corretta la lettura in orizzontale del pannello. Altrettanto pertinenti sembrano i confronti con le lesene tra le specchiature nell'aula ostiense fuori porta Marina e con le lesene di quello che viene chiamato il vano di Bitus nella catacomba di Marco e Marcelliano o la decorazione parietale del retrosanctos di Gaio nel cimitero di Callisto: sulla base di questi confronti dovremmo ipotizzare una collocazione in verticale del pannello.

In ogni caso sia il tipo di lavorazione, sia i confronti appunto, portano a datare anche questo sectile all'inizio del IV secolo d. C.

Bibliografia: Salvetti 2001, pp. 389-390.

SEZIONE XIII. LE VIE DEL MARMO

228. A-B urn:collectio:0001:antcom:34086 Piccolo piedistallo con dedica urn:collectio:0001:antcom:34086 a Silvano

(Matthias Bruno)

Roma, Antiquarium Comunale del Celio, depositi, inv. n. 34086. rinvenuto il 3 agosto 1939 a Roma presso Santa Maria in Traspontina. lunense; larghezza 28,8 cm, profondità 42,5 cm, altezza 14,6 cm. I secolo d. C. mutilo. Scheggiate le modanature d'incorniciatura. Ampia lacuna in corrispondenza dell'angolo superiore sinistro del fianco sinistro. Sul lato opposto lacune lungo il bordo inferiore. Le superfici si presentano parzialmente corrose e ricoperte da incrostazioni calcaree

Sul lato anteriore del piedistallo è visibile una tabula ansata che presenta nel campo epigrafico ribassato, incorniciato da un listello liscio e una gola rovescia, un'iscrizione dedicatoria a Silvano, incisa su cinque righe e riferibile al I secolo d. C.: «silvano / P(ublius) TARTARIUS / CHARITO / ET ATTICUS FIL(ius) / D(onum) D(edit)». Il dedicante Publio Tartario Charito, noto da un'altra iscrizione di un monumento onorario da Roma, doveva operare con il figlio Attico nell'ambito della lavorazione della pietra, in quanto sui due lati, incorniciati da modanature costituite da un listello liscio e gola rovescia sono stati rappresentati degli strumenti comunemente utilizzati dagli scalpellini per scolpire e rifinire manufatti di marmo o pietra. Sul lato sinistro (228 a) sono visibili, a partire da sinistra, un filo a piombo (perpendiculum), uno scalpello (scalprum), una mazzetta (malleus), un compasso con braccia rettilinee (circinus rectus) e uno squadro (norma). Sul lato opposto (228 b), sempre a partire da sinistra, si distinguono un archipendolo (libella) con filo a piombo e un regolo (regula o modulus), di norma pari alla lunghezza della unità di misura del piede romano (29,6 centimetri circa).

La rappresentazione degli strumenti di lavoro su questo piccolo basamento sono curate nei minimi dettagli, come è visibile nella raffigurazione dello scalpello, della mazzetta, del compasso e dello squadro che mostra nel braccio orizzontale superiore una sorta di listello liscio sporgente corrispondente nella realtà (si veda l'esemplare pompeiano qui esposto, scheda n. 257) a una larga base di appoggio che doveva agevolare l'esatto posizionamento dello strumento. Il peso del filo a piombo, visibile sia sul lato sinistro che nell'archipendolo sul lato destro, ha una tipica forma conica molto svasata (si confronti anche in questo caso con i pesi di filo a piombo da Pompei; schede nn. 246-247-248), che doveva, permettere traguardando il profilo orizzontale superiore, una livellazione «a occhio» rispetto all'asse verticale. Particolare cura si è inoltre posta pure nella resa del filo del piombo sul lato sinistro, avvolto in modo obliquo intorno a un'asticella, reso mediante una sequenza di leggeri solchi diagonali e paralleli. Sul lato destro merita invece una particolare attenzione la rappresentazione della regula, che se nella realtà doveva corrispondere all'unità di misura del piede romano, cioè 29,6 centimetri circa (come attestato nell'esemplare pieghevole da Pompei, cat. 251), nel rilievo misura soltanto 28,6 centimetri. Questa «sottomisura» è da attribuire piuttosto a una scarsa accuratezza nella realizzazione che alla mancanza di spazio disponibile. L'intenzione era quella di dare all'osservatore l'idea dello strumento, rappresentato approssimativamente nella sua lunghezza originaria, senza ritenere determinante la sua esatta raffigurazione. Pur tuttavia si è voluta rappresentare la divisione della stecca mediante una sequenza di incisioni trasversali che la suddividono in sottomultipli del piede romano: le prime incisioni dalle estremità indicano misure di 7,1-7,2 centimetri, mentre le altre sette dividono la parte interna della regula in tratti di 1,75-2 centimetri. Considerando la non esatta corrispondenza della lunghezza dello strumento alla misura del piede romano si può comunque proporre di leggere nelle due misure maggiori quella dei palmi (7,42 centimetri) e nelle 8 minori quella dei digiti (1,85) della divisione in sedicesimi del piede romano (Giuliani 1983, fìg. 173).

Il piano superiore del basamento è caratterizzato da una superficie interna leggermente ribassata (lunghezza 37,52 centimetri, larghezza 22,82 centimetri, profondità 0,32 centimetri) rifinita a gradina e scontornata da una fascetta (larghezza 0,82 centimetri) lavorata a scalpello, che doveva permettere la collocazione di una statua forse del cane, animale con cui Silvano si accompagnava (Schraudolph 1993, p. 176). La superficie inferiore del basamento è liscia e levigata e mostra lungo il bordo del lato destro, a profilo leggermente convesso, evidenti tracce di usura, che potrebbero essere state causate da un riutilizzo capovolto del basamento come gradino in epoca postantica.

Bibliografia: Schraudolph 1993, p. 176.

272. Capitello corinzio sbozzato urn:collectio:0001:antcom:35189

(Matthias Bruno)

Roma, Antiquarium Comunale del Celio, inv. n. 35189. da Roma. lunense; altezza 73 cm, diametro inferiore 61 cm, lati piano superiore 93-95 cm. epoca imperiale. integro

II capitello corinzio sbozzato è caratterizzato da due dischi sovrapposti di differenti diametri e spessori (il primo: diametro 61 centimetri, spessore 11-13,5 centimetri; il secondo: diametro 80-81 centimetri, spessore 10-11 centimetri), caratterizzati sui fianchi da una lavorazione a subbia media che ha lasciato sulle superfici evidenti solchi paralleli e obliqui. All'elemento circolare inferiore seguono quattro superfici con andamento obliquo e di forma triangolare, unite parzialmente agli angoli opposti, che costituiscono la congiunzione con l'elemento parallelepipedo inferiore e determinano inoltre la forma particolare dei fianchi di questo, costituita dalla combinazione di un rettangolo e un triangolo isoscele sovrapposto. L'originaria superficie superiore, l'attuale piano inferiore, è completamente liscia e è stata ottenuta mediante segagione. Nelle cave di Luni (Dolci 1994), come pure in quelle del Proconneso (Asgari 1988; Asgari 1990, pp. 119-123), si pro­ducevano capitelli corinzi sbozzati esportati in questo modo e che venivano rifiniti una volta giunti a destinazione. Il capitello in esposizione, come pure l'altro del lapidario dell'Antiquarium del Celio, è relativo alla fase quattro della sequenza no[sic] state individuate dall'Asgari (Asgari 1988; Asgari 1990, pp. 119-123) e permettono di comprendere che nel disco dal diametro minore doveva permettere intaglio della parte inferiore delle foglie della prima corona, dal secondo si sarebbero ricavate le punte delle medesime foglie, mentre nella parte restante servia a ottenere le foglie superiori e gli altri elementi decorativi vegetali del kalathos.

Il manufatto presenta inoltre due iscrizioni numerali identiche, « N XXIII» (altezza 5,5-6 centimetri), incise sia sul fianco del disco maggiore, che sul piano del disco minore, che dovevano permettere l'identificazione numerale del manufatto anche se nel deposito o durante il trasporto malauguratamente un altro fosse stato collocato sopra.

Bibliografia: Pensabene 1995, p. 202, cat. 19; Pensabene 1998a, pp. 342 e ss., fig. 2.

276. Blocco urn:collectio:0001:antcom:35188

(Matthias Bruno)

Roma, Antiquarium Comunale del Celio, inv. n. 35188. da Roma. breccia quintilina; lunghezza 143,5 cm, larghezza 30 cm, altezza 90-100 cm. epoca imperiale (I-II secolo d. C.). frammentario. Fratturato un fianco e scheggiato lungo i bordi

Grande lastrone che conserva le superfici opposte maggiori lisce ottenute mediante segagione. Lungo il margine inferiore di queste si scorge una piccola fascia leggermente sporgente risparmiata dalla segagione e ottenuta staccando la lastra prodotta dall'ultimo taglio con l'ausilio di leve o piccoli cunei metallici inseriti nel taglio stesso.

Su un fianco, rifinito come la superficie superiore a subbia grande o a piccone a doppia punta, è stata incisa a grandi lettere, alte circa 10 centimetri, una iscrizione di cava con numerale e sigla ignota «CAES(aris) IIII ac». L'iscrizione indica senza alcun dubbio l'appartenenza del manufatto al patrimonio imperiale, mentre il numerale basso pare confermare ed evidenziare la rarità della qualità marmorea rappresentata. Si nota inoltre come i tagli delle lastre dai fianchi siano stati approntati in modo tale da preservare il più a lungo possibile l'iscrizione come chiara e inequivocabile attestazione di proprietà, ipotesi che potrebbe quindi confermare l'antichità dei tagli stessi.

Questa breccia era ritenuta dal Corsi una delle pietre più rare e più belle (Corsi 1845, p. 145) e venne da lui definita pure Breccia della Villa Adriana, dato che capitava raramente di rinvenire tra i ruderi della villa imperiale lastre di tale marmo proveniente con ogni probabilità dalla Liguria e in particolare dai dintorni di Lèvanto (Gnoli 1988, pp. 219 e ss.).

Bibliografia: Pensabene 1995, p. 202, cat. n. 18.

279. Blocco informe urn:collectio:0001:antcom:35187

(Matthias Bruno)

Roma, Antiquarium Comunale del Celio, inv. n. 35187. da Roma. diaspro giallo di Sicilia; lunghezza 92 cm, larghezza 78,5 cm, altezza 54 cm. datazione incerta. integro

La mancanza di qualsiasi notizia relativa al recupero e al contesto di rinvenimento non permette di attribuire con certezza questo blocco informe di diaspro giallo all'epoca romana. Diffuso è infatti l'utilizzo dei diaspri italiani, provenienti dalla Sicilia o dalla toscana, in epoca barocca, quando queste pietre semipreziose venivano utilizzate per discreti inserti decorativi parietali o pavimentali, come ad esempio nella cappella dedicata a San Filippo Neri in Santa Maria della Vallicella a Roma, riccamente ornata con bronzi dorati, marmi rari, diaspri e madreperla oppure nella cappella sistina di Santa Maria Maggiore, dove pietre preziose e diaspri duri ornano una predella dell'altare centrale. Il diaspro giallo di Sicilia, proveniente da diverse località nei dintorni di Palermo, è attestato ovviamente in molte collezioni litologiche, quali ad esempio la Kircheriana (Evangelista, Lazzarini 1998a, pp. 391-410), la Pescetto (cfr. scheda n. 330) e la Podesti (Pensabene-Bruno 1998b, p. 16).

La datazione di questo blocco rimane allo stato attuale incerta, in quanto potrebbe essere stato portato a Roma in epoca moderna; tuttavia, il rinvenimento nell'area degli scavi di Ostia di un altro blocco in diaspro giallo rosso (cfr. scheda n. 280) certamente antico, permetterebbe di alzare la cronologia del blocco del Celio.

L'aspetto irregolare dei due blocchi di diaspro in mostra è legata alla formazione della roccia stessa che si rinviene sotto forma di ammassi di piccoli e di notevoli dimensioni, in banchi rocciosi di natura differente (Montana-Gagliardo Briucca 1998, pp. 74 e ss.), da cui venivano estratti e in seguito non regolarizzati onde evitare sprechi di materiale prezioso.

Bibliografia: Pensabene-Bruno 1998b, p. 16, n. 99.

281. Blocco parallelepipedo urn:collectio:0001:antcom:35186

(Matthias Bruno)

Roma, Antiquarium Comunale del Celio, inv. n. 35186. da Roma. serpentino; lunghezza 83,7 cm, larghezza 61 cm, altezza 54 cm. epoca imperiale. integro

Blocco in serpentino di forma poligonale caratterizzato da una superficie superiore liscia e otto bordi attigui con andamento lineare e lunghezze differenti. Le superfici dei bordi sono state rifinite a subbia piccola e a scalpello per una altezza variabile tra i 7 e 16 centimetri, mentre la parte posteriore è rimasta grezza e a profilo convesso. La lavorazione particolare dei fianchi del blocco farebbe ipotizzare un uso come grande «basolo» pavimentale, come noto da altri conservati nell'area della domus augustana sul Pa­latino.

Le dimensioni del manufatto corrispondono a quelle medie dei blocchi normalmente estraibili dalle cave antiche aperte sulle pendici della collina di Psiphi presso il villaggio di Krokeai, come ricorda Pausania, il quale aggiunge che «la cava non è costituita da uno strato continuo di roccia» (Paus. III, 21, 4). Anche Plinio si sofferma sulla particolarità dell'affioramento spiegando che «non tutti i marmi si estraggono dalle cave; parecchi si trovano anche sparsi sotto terra e sono i più preziosi - come il marmo verde di Sparta.» (Plin., NH XXXVI, 55, XI). Entrambi gli autori caratterizzano quindi con le loro descrizioni il banco roccioso come poco compatto e molto fratturato, peculiarità che non permise la produzione di grandi manufatti. Risale all'epoca augustea l'utilizzo da parte dei romani del serpentino, dato che Strabone ricorda l'apertura di nuove cave di una pietra pregiata, da identificare quasi sicuramente con il marmo lacedemone, aperte dai romani nel Taigeto (Strab., Geograph. VIII, 5, 7), mentre deve essere oggi rialzata la data del primo utilizzo che non risalirebbe più all'epoca micenea ma all'età neolitica (6000-3000 a. C.), come testimoniato da un'ascia rituale, inv. 5648a lunga 30 centimetri circa, rinvenuta nella grotta di Dimiova presso Dioda e ora conservata nel Museo Archeologico di Kalamata.

Inedito.

287. Lastrone urn:collectio:0001:antcom:35185

(Matthias Bruno)

Roma, Antiquarium Comunale del Celio, inv. n. 35185. da Roma. porfido rosso; lunghezza 216,5 cm, altezza 160-172 cm, spessore totale minimo 3 cm e totale massimo 50 cm. epoca imperiale. integro, scheggiato in corrispondenza di un angolo

Grande lastrone in porfido rosso egiziano caratterizzato da una sezione trapezoidale, a «v», irregolare ottenuta in seguito a tagli non paralleli ma convergenti. Un fianco presenta una superficie liscia continua, sulla quale si intravedono appena fasce leggermente sfalzate e larghe centimetri 15 circa, indicative del lavoro di segagione eseguito in un determinato lasso di tempo, forse relativo a una giornata. Sul lato opposto si distin­guono due differenti operazioni di divisione: la prima ha prodotto la superficie liscia ancora visibile in buona parte della metà inferiore, mentre la seconda doveva separare dal blocco una lastra di 2-2,5 centimetri di spessore. Il taglio non venne condotto a termine e si limitò soltanto alla metà superiore e la lastra divisa venne asportata spezzandola, lasciando ben visibile al centro uno scalino costituito dalla superficie di frattura della lastra. Lungo il margine interno dello scalino si conserva in minima parte lo spessore del taglio, che permette di stimare in 0,3-0,4 centimetri lo spessore della lama utilizzata per questa operazione. Lungo un margine della superficie grezza originaria, conservata ancora tra i due fianchi opposti lisci, è visibile parte di una cavità predisposta per l'inserimento di un cuneo metallico (lunghezza totale minima 9 centimetri, totale massima 12 centimetri, larghezza massima 2 centimetri, profondità 6 centimetri) impiegato nelle operazioni di separazione dal banco roccioso nelle cave del Djebel Dokhan.

Il materiale impiegato permette ovviamente di riferire il grande blocco originario all'epoca imperiale; tale certezza non sussiste però per quanto riguarda i tre tagli tuttora visibili, che potrebbero essere stati approntati anche in epoca moderna, quando il recupero e il riuso di materiali antichi e di cava era all'or­dine del giorno. Basti ricordare l'eclatante assorbimento totale degli oltre 1200 blocchi della Marmorata romana (Bruzza 1870; Maischberger 1997) riutilizzati nei restauri e decorazioni marmoree di edifici di Roma e di altre città

Bibliografia: Pensabene 1995, p. 202, cat. n. 18.

294. Rocchio urn:collectio:0001:antcom:12437

(Matthias Bruno)

Roma, Antiquarium Comunale del Celio, inv. n. 12437. da Roma. alabastro listato; altezza 106,5 cm, diametro 94 cm. epoca imperiale. fratturato a un'estremità

Grande rocchio di alabastro listato con superfici rifinite a gradina medio grande e iscrizione a caratteri monumentali, «a cr o |_ xxx», scolpita sul piano di posa conservato.

Il cilindro, caratterizzato da un diametro regolare e dall'assenza lungo il margine conservato di un collare o scapo sbozzato, doveva essere destinato con ogni probabilità alla produzione, mediante segagione, di tondi da utilizzare per stesure di schemi pavimentali. Nel medesimo lapidario si conservano altri due rocchi integri della medesima qualità, uno composto da due frammenti combacianti (lunghezza 206 centimetri, diametro 87 centimetri) e l'altro, nel diametro pressoché identico a quello in esposizione (lunghezza 179,5 centimetri, diametro 94,7).

Entrambi mostrano come la lunghezza originaria del nostro frammento debba attestarsi molto probabilmente su simili misure. Di dimensioni più ridotte sono invece i due rocchi di alabastro listato, recuperati all'inizio degli anni sessanta presso la chiesa di Santa Aurea nel Borgo di Ostia Antica (Baccini Leotardi 1979, p. 27), e ora esposti, con gli altri materiali di cava, nei giardini degli Scavi di Ostia Antica (Pensabene-Bruno 1998a, pp. 14-17). Questi ultimi due presentano, oltre a sigilli plumbei con sigla «agr» (vedi schede nn. 210-221), sigle iscritte, «rma (in legamento) m», note da iscrizioni su blocchi delle cave di Docimium (Fant 1989, p. 23), di cui uno è riferibile agli inizi del II secolo d.C.

La provenienza di questa varietà di alabastro è da individuare probabilmente nelle immediate vicinanze dell'antica Ierapoli, dove, in un distretto estrattivo caratterizzato dalla presenza di grandi tagliate (Bruno 2002b), si estraeva questo alabastro introdotto a Roma sin dall'epoca augustea (Strab., IX, 437).

Bibliografia: Pensabene 1995, p. 200, cat. n. II.

297. Colonna quadriloba urn:collectio:0001:antcom:28589

(Matthias Bruno)

Roma, Antiquarium Comunale del Celio, inv. n. 28589. da Roma. africano; altezza 281 cm, larghezza 108 cm, profondità 70 cm. epoca imperiale. integro, scheggiato in corrispondenza di un angolo

È stato possibile evidenziare, grazie alla presenza delle venature dell'africano di Teos, l'appartenenza dell'oggetto al frammento di colonna quadriloba (inv. n. 28546), conservato anch'esso nel lapidario dell'Antiquarium del Celio. L'oggetto, ritenuto quindi erroneamente una colonna biloba (Pensabene 1995, p. 198, cat. 3; Fant 2001, p. 175), costituiva in origine un manufatto quadrilobo di cava di notevoli dimensioni. Considerando infatti l'altezza conservata del frammento quadrilobo, pari a 79-82 centimetri, si ottiene una lunghezza originaria del manufatto di 357-360 centimetri con lati di 106 centimetri circa.

Le superfici di taglio, conservate su entrambi i manufatti, permettono di ricostruire le fasi lavorative, probabilmente di epoca moderna, quando si decise di sottoporre a segagione il manufatto per ottenere elementi da utilizzare in modo differente. Il primi due tagli produssero due elementi di dimensioni minori, uno di 80 centimetri e l'altro di 280 centimetri di lunghezza. A questo punto il frammento minore venne abbandonato, mentre quello maggiore subì ulteriori tagli eseguiti sempre con una sega a pendolo. Un nuovo taglio, che raggiunse il centro del manufatto, venne eseguito lungo la linea di congiunzione dei due fusti destri, a cui seguì un secondo approntato tra la linea di congiunzione dei due fusti ora mancanti, che superò di gran lunga la metà del manufatto e doveva permettere la separazione del primo fusto parziale. Sul retro del frammento «bilobo» si conservano ancora due solchi relativi non a due tagli differenti bensì al medesimo, che però quando venne ripreso dopo una sosta lavorativa non riuscì più a penetrare nel medesimo solco, cosicché la lama ne produsse uno nuovo con andamento leggermente divergente. L'ultimo taglio, non passante, venne eseguito non esattamente in corrispondenza della linea di congiunzione rientrante tra i due fusti sulla sinistra e infatti si conserva ancora parte della circonferenza di quello poi asportato. Questo venne asportato spezzando la superficie risparmiata dalla segagione e di cui si conserva in parte ancora una fascia sporgente lungo il margine interno della superficie di taglio. L'operazione di separazione dei fusti avvenuta mediante l'utilizzo di una sega a pendolo comportava, dato che la sega tagliava sempre soltanto in senso verticale e dall'alto verso il basso, un rotolamento, da eseguire con estrema attenzione, in modo da permettere le diverse operazioni di taglio appena descritte. La divisione dell'originaria colonna quadriloba sembra riferibile piuttosto all'epoca moderna che a quella antica, quando si decise di recuperare materiali da utilizzare in vario modo.

Sia il frammento di colonna biloba che quella quadriloba hanno superfici rifinite a subbia media ed entrambi mostrano come i fusti fossero già provvisti di scapi informi, alti 14-18 centimetri circa e sporgenti di 1-2 centimetri. Ora, riconsiderando il manufatto nelle sue dimensioni originarie, si può definire in 357-360 centimetri l'altezza originaria dei due fusti «ricomponibili», mentre il diametro inferiore, rilevabile sul frammento quadrilobo, corrisponde a 53 centimetri circa. I due fusti, come dovevano confermare pure i due ora mancanti, permettono di rilevare una rastremazione dei monoliti verso l'estremità conservata sul frammento bilobo, dove il diametro al di sotto dello scapo si riduce a 49,5-50 centimetri circa. I quattro fusti furono quindi scolpiti insieme definendo già in cava la posizione finale dei fusti di colonna, che, per le dimensioni canoniche rilevabili sui fusti antichi, dovevano essere ridotti a circa 350-355 centimetri in altezza e a circa 44-48 centimetri di diametro inferiore.

Infine sulla superficie del piano di posa superiore della colonna maggiore è visibile il numerale VIII (altezza. 6 centimetri), apposto probabilmente in cava.

Bibliografia: Pensabene 1995, p. 198, cat. 3, p. 201, fig. 228.

© Capitoline Museums 2010